Il verdetto è stato emesso, il caso archiviato, ma la vicenda Clostebol continua a far discutere. Jannik Sinner ha scontato tre mesi di squalifica, ma resta il retrogusto amaro di una storia che solleva più dubbi che certezze. La doppia positività riscontrata nei test antidoping di Indian Wells ha scatenato un dibattito che va ben oltre il caso specifico: lotta al doping, responsabilità oggettiva, applicazione (spesso creativa) delle regole. Una cosa è chiara: Sinner non è un dopato, cos’ come accertato sia dall’Itia che dalla Wada. L’Agenzia mondiale antidoping ha passato al setaccio tutti i suoi test dell’ultimo anno e non ha trovato nulla di sospetto. Eppure, ha spinto per mesi affinché si applicasse l’articolo 10.6.2 del Codice antidoping, quello che riguarda i casi in cui un atleta non ha colpa significativa, ma non può dimostrare che la sostanza proibita sia stata ingerita tramite un “prodotto contaminato”. Il che significa che la pena poteva essere ridotta solo fino al 50% del massimo previsto, cioè un anno.
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Eppure, in primo grado l’Itia aveva visto la questione in modo molto diverso, richiamandosi a un’altra norma, l’articolo 10.5, che prevede l’annullamento totale della sanzione se l’atleta non ha colpa o negligenza. E perché avrebbe dovuto beneficiarne Sinner? Nel commento che accompagna questa norma si legge che può essere applicata solo in circostanze eccezionali. E il caso di Sinner lo era. Lui non sapeva e non poteva sapere che il Clostebol fosse nel suo ambiente. Il fisioterapista Giacomo Naldi, per curare un taglio al dito, aveva usato un medicinale da banco contenente la sostanza vietata. Il contatto con la pelle e il successivo massaggio avevano causato la contaminazione transdermica. Nessun vantaggio in termini di prestazione, nessun dolo, nessuna intenzione. E allora perché il patteggiamento per tre mesi? Perché la Wada non voleva mollare.
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Inizialmente aveva chiesto un anno di stop, poi, dopo un primo rifiuto da parte del team legale di Sinner, ha riprovato a trattare. Se l’atleta non avesse accettato, si sarebbe finiti in tribunale, con il rischio che i tre giudici assegnassero una pena ben più pesante. Nel comunicato che ha chiuso il caso, la stessa Wada ha ammesso che la vicenda era diversa da qualsiasi altro precedente, perché non si trattava di somministrazione diretta da parte dell’entourage, ma di contaminazione transdermica accidentale. Ma alla fine ha comunque deciso di far valere il principio: “Gli atleti sono responsabili delle azioni del loro staff”. Quindi, Sinner è stato punito non perché colpevole, ma per non creare un precedente pericoloso. A rendere il tutto ancora più assurdo è un dettaglio rivelato dalla Bbc. Dal 1° gennaio 2027 entrerà in vigore una modifica del Codice antidoping: il concetto di “prodotto contaminato” sarà sostituito da “fonte di contaminazione”, includendo anche la trasmissione accidentale di una sostanza proibita.
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Se questa regola fosse già stata in vigore, Sinner non avrebbe mai affrontato un processo né subito una squalifica. A conferma dell’assurdità della situazione, sempre la Bbc ha citato una fonte interna alla Wada che ha ammesso: “Tra due anni, avrebbe ricevuto solo una tirata d’orecchie”. Ed ecco la domanda da un milione di dollari: il caso Sinner è stato gestito così per dimostrare la forza della Wada? Non è un’ipotesi peregrina, considerando che il 29 maggio 2025 si terranno le elezioni per il nuovo presidente dell’Agenzia mondiale antidoping. E quale modo migliore per giustificare la propria esistenza e la necessità di un organo sempre più potente, se non colpire un nome forte e pulito? Sinner, alla fine, tornerà in campo il 4 maggio, senza aver perso alcuno Slam. Ma quello che rimane è la sensazione di un verdetto politico più che sportivo. Quindi: era giustizia, o il sacrificio di un innocente per la sopravvivenza di un sistema fallace?