Si dice che ogni rivincita è una risata in faccia a chi non voleva crederci. Solo che non è vero, o comunque non sempre vero. Perché a volte chi non ci credeva arriva a ferirti così tanto, a disturbarti così tanto, che quando arriva il momento di ridergli in faccia finisci per piangere. Di gioia e di rabbia. Soprattutto quando pensi che il credito che hai non è fatto di cose o denari, ma di futuro che è stato negato. Oggi Andrea Iannone da Vasto, anni 34, ha pianto dal gradino più alto del podio di Aragon, dopo aver vinto Gara1 in Superbike. La prima della sua nuova carriera. La prima della nuova vita che ha voluto e che è andato a prendersi dopo la storiaccia del presunto caso di doping. E dopo aver fatto i conti con una pena da criminale vero inflitta da chi, contestualmente, è arrivato a sdoganare persino l’uso di cocaina tra gli atleti: solo 3 mesi a chi dimostra di non averla usata per migliorare le proprie performance.
Andrea Iannone da Vasto, invece, di anni ne ha presi quattro. E non per la cocaina, ma per un anabolizzante che è sì vietato agli sportivi, ma che a detta di tutti, esperti e addetti ai lavori compresi, mai e poi mai potrebbe migliorare le prestazioni in pista di uno che fa il pilota di moto da corsa. Tra l’altro quella sostanza, almeno stando a quanto il pilota ha sempre sostenuto, era in un pezzo di carne mangiato dall’altra parte del mondo e senza pensare troppo ai rischi delle eventuali contaminazioni. Vero? Non vero? Non importa. Perché è passato, appunto. E perché Andrea Iannone ha comunque pagato restando giù dalle moto da corsa per quattro interminabili anni. Un tempo che avrebbe fermato chiunque, tranne quel ragazzo abruzzese che nel frattempo ha cambiato ogni cosa, connotati compresi, tranne l’unica definizione mai accettata di se stesso: pilota. Mentre il mondo, molto del suo mondo, gli voltava in qualche modo anche le spalle. Ok, non ha mai fatto nulla per risultare simpatico o farsi voler bene, ma non ha neanche mai fatto nulla per meritare le palate di cacca che soprattutto sui social gli riversano addosso ogni volta che si parla di lui. Anzi, forse ha pure insegnato una roba difficile davvero: a reinventarsi consapevolmente dentro una parentesi da ciò che invece si vuole essere e invece non si può.
Ha aspettato. Ha sofferto. Ha lavorato allenandosi come uno che la domenica ha la gara, quasi fingendo di ignorare che quella domenica sarebbe stata quattro anni dopo. Con quattro anni di più e nuovi avversari. Poi quella domenica è arrivata. E ha preso il colore giallo di una Ducati Panigale privata. Di una squadra che è italiana e che combatte con una sola moto in mezzo ai giganti. Anche lì, però, tutti a dire che se GoEleven aveva scelto Andrea iannone era stato per il personaggio che Iannone è e non certo per il pilota che ormai non era più. Invece no: era ancora un pilota e l’ha dimostrato subito. Vincendo. Senza pretendere. Anzi, lasciando scoprire solo mesi dopo che correre è un mestiere che gli costa, invece di farlo guadagnare. Però non è bastato neanche questo ai soliti professionisti del veleno. I podi, il mercato, il sogno di una moto ufficiale e quello sfiorato pure per un ritorno in MotoGP, fino alle porte che piano piano si sono chiuse tutte. Più per una serie di coincidenze che per reale scetticismo. Ma pure per un amore che Iannone non ha voluto tradire: la Ducati.
Fino a oggi. Fino a questo sabato in quell’Aragon su cui corre anche la MotoGP. Fino alla rivincita definitiva di una Gara1 dominata dalla prima all’ultima curva e difesa con quella stessa ferocia con cui per quattro anni ha difeso il suo ruolo nel mondo: pilota. Fino a quelle lacrime che hanno segnato il viso ormai completamente nuovo di un ragazzo che ha cambiato e ha dovuto cambiare tutto, tranne il filo che da sempre gli ha unito il cuore al polso destro. Sono state lacrime che non lavano e che non laveranno mai, ma sono il segno che gossip, sgasonate, atteggiamenti, fidanzate da collasso, scetticismi e pregiudizi sono solo un contorno più o meno piacevole di ciò che invece tutti volevano quasi dimenticare: è sempre il 29, è ancora il 29.