Un preservativo sul casco, arrabbiato perché per lui non c’è lavoro. La gente che pensa a Valentino Rossi come a un pilota che ha vinto tantissimo si è persa il meglio, ovvero il come: il suo show, la sua magia, quel talento formidabile nell’improvvisazione. E non è poco, anzi. C’è la stessa differenza che passa tra l’ascoltare un disco in camera e andare a un concerto, perché se nel primo caso capisci nel secondo ti emozioni.

Per la gente che seguiva già le corse, l’arrivo di Valentino è stato come vedere un astronauta che atterra sulla luna in mutande e, alla richiesta di spiegazioni, risponde una cosa del tipo: “Che c’è? avevo caldo”. Dev’essere stato Gualtiero Marchesi ad aver detto che la cucina è un gioco che va preso estremamente sul serio. Ecco, ci sono buone possibilità che le gare in moto secondo Valentino Rossi siano esattamente il contrario: una cosa estremamente seria da prendere come un gioco. Seria perché devi dare tutto, essere ossessivo, limare il centesimo, ripeterti allo sfinimento per spremere il meglio da ogni gesto. Seria perché in moto si muore. Nonostante questo, andare forte è una cosa talmente bella e gustosa che non puoi davvero prenderla come un lavoro: sarebbe un peccato, saresti un coglione. Valentino è il più grande di tutti i tempi perché lui questa roba l’ha capita come un bimbo capisce chi è la madre, in un attimo e senza dover chiedere in giro un parere.

Resta il fatto che questo approccio alle corse è difficile da raccontare: come fai a dipingere quell’atmosfera di fine millennio, di bar sulla riviera con quei gelati lì, Solero Shots e Winner Taco, con le biciclette prima e i motorini poi, le impennate e i traversi inchiodando col freno dietro. Non puoi raccontare neanche che le corse, i circuiti e i piloti si portavano addosso un’aura di misticismo, perché di loro immaginavi quasi tutto e sapevi praticamente niente. Dovevi lavorare di immaginazione: mancavano i social, i giornali online e pure la copertura televisiva che c’è adesso, con canali dedicati e ore intere di approfondimento. Ora non è peggio, è diverso. Ma Valentino quegli anni li ha cavalcati e ora quella maniera di stare nel paddock, da amorevole disastro, è la cosa che ci manca di più, perché oltre ad andare forte parlava dritto, intrecciando i cervelli dei vecchi signori che volevano sentire solo frasi di circostanza come "dobbiamo lavorare" nel parco chiuso. Rossi lavorava di brutto, ma “dobbiamo lavorare” non è mai stata una sua frase.
La VR46 Heritage Collection
Per raccontare questa storia, la VR46 ha prodotto la Heritage Collection: roba che ti riporta in un attimo alla fine degli anni Novanta, nello specifico al 1997, stagione del primo mondiale di Valentino Rossi, quello in 125 con l’Aprilia Nastro Azzurro. Le grafiche col sole e la luna che sono finite adesivate su metà degli scooter immatricolati in Italia, il 46 un po’ più tondo, un po’ più smussato, la scritta Rossifumi con quei caratteri lì, che sono rimasti suoi assieme ai colori che riesci ancora a vedere sui prati quando vai a vedere le moto in circuito. Ai Gran Premi, tra i prati della Casanova - Savelli, del Curvone di Misano o all'estero, c’è sempre qualche tifoso della vecchia scuola, che magari arriva col camper dall’Olanda con in testa un cappellino di quei giorni lì o una maglietta sbiadita del fan club vecchia di trent’anni. Quelle magliette hanno la stessa aura di una t-shirt dei Nirvana prima che diventassero buone per gli influencer, o dei Ramones, dei Pantera, degli AC/DC. È un'aura da rockstar. La Heritage Collection è un bel regalo per chi quegli anni li ha vissuti e in un attimo torna lì, a quell’estetica, ma pure per chi non ha fatto in tempo. Tra i prodotti disponibili nello shop c’è anche lui, il preservativo che Valentino si era fatto disegnare sul casco nell’anno in cui portò una bambola gonfiabile sulla moto durante il giro d’onore al Mugello. Sì, le corse sono una cosa seria. Ma vincerle giocando è un’arte e tornare a quei giorni un regalo enorme.
