Le Regine si fanno aspettare. Lindsey Vonn ha il pettorale numero 31, è l’ultima a scendere nel Super G di Sankt Moritz che segna il suo ritorno in Coppa del Mondo dopo sei anni. In Engadina è un sabato mattina folgorato dalla luce: neanche una nuvola in cielo, non una punta di vento, la Corviglia battuta dalla neve che è caduta in gran quantità nel corso della settimana. È la giornata perfetta, e non poteva essere altrimenti.
La regia stacca per diversi attimi sulle prime tre del podio – Huetter, Behrami e Goggia – che sorridono. Su quel fermo immagine viene proiettata la grafica che riassume classifiche e distacchi dell’intera manche, come se la gara fosse ormai finita. Dal divano, con un certo nervosismo, sussurri: “Ma come, Lindsey? Dai è il suo giorno, lo sanno tutti”.
Finalmente trasmettono in primo piano la sua sagoma inconfondibile, inchiodata al cancelletto a 47 secondi dallo start. È tesissima: butta fuori aria a intervalli regolari, sbuffa, stantuffa, contorce la mandibola e strizza il contorno occhi. Fa sempre effetto vedere una Regina alle prese con un momento di vulnerabile umanità. Ma è solo un attimo infatti, perché Lindsey entra in modalità predatrice scavalcando con le racchette la sbarra del tornello, picchiettandole l’una contro l’altra in un tan tan che fa defluire l’agitazione nel lago ghiacciato della cattiveria agonistica. Così infilza la neve con la punta dei bastoncini, prima di far roteare più volte mani e polsi attorno all’impugnatura, in un fruscio simile alle fusa di un gatto. È un rito, una scaramanzia, un qualcosa che contraddistingue le leggende quando smettono di essere persone normali. Cinque, quattro, tre, due, uno: Lindsey Vonn è tornata, tutto vero. A 40 anni e con un ginocchio bionico.
Il primo intertempo è il peggiore della giornata, mezzo secondo abbondante di distacco da Cornelia Huetter. Tutti sono già pronti col fucile spianato: “Ma chi glielo fa fare? Perché sporcarsi l’immagine così?”. Lindsey procede felpata tra i cambi di direzione del secondo settore, quello più tecnico, dove invece registra uno dei migliori parziali del Super G della Corviglia, a soli tre centesimi dal riferimento assoluto. Da lì in poi è tutta una discesa mite, scandagliata dai dossi, in cui bisogna lasciar andare gli sci: perde ulteriori cinque decimi al terzo split, prima di siglare un quarto intertempo di pregevole fattura. Alla fine è quattordicesima, ad un secondo dalla vetta. Sul traguardo il pubblico si alza in piedi e produce un frastuono che scioglie la neve, perché una signora di quarant’anni, dopo sei di inattività, si è messa alle spalle mezzo schieramento. Ai microfoni del parterre Lindsey dirà che non era quella la gara in cui cercare effetti speciali, che l’importante era portarla a termine senza rischiare eccessivamente. È rimasta conservativa in alcuni tratti, forse troppo racconterà, ma in altri ha solleticato i tempi delle più veloci e questo basta per convincere sé stessa e il mondo intero che tornare in pista è stata una gran bella idea. Che c’è un discreto margine, forse insperato, per divertirsi ancora di più.
Lindsey è tornata solo per il gusto di sciare senza più sentire dolore, solo per provare di nuovo quelle maledette sensazioni del pre gara, che sul momento detesti ma che quando ti ritiri evocano una strana nostalgia. Non sarebbe rientrata se non avesse intravisto la possibilità di produrre degli sprazzi di competitività assoluta, eppure adesso gareggia con una serenità potente, figlia di un dualismo che accomuna una ristrettissima cerchia di sportivi rimasti in attività dopo i quarant’anni: non devono dimostrare più nulla, ma in virtù del nome tutti si aspettano sempre qualcosa di speciale da loro. Ti immagini che anche a settant’anni suonati Lindsey Vonn riesca ad essere rapidissima nel secondo settore della Corviglia, un tratto tecnico che richiede sensibilità sopraffina, dove lei è transitata con una fluidità disarmante. Composta, aggraziata, morbida, come se non facesse fatica, come se stesse andando piano. Invece era rapidissima, e lo faceva sembrare facile. Un po’ come Valentino Rossi faceva apparire scontato l’ultimo settore di Assen, uno dei più complicati dell’intero calendario della MotoGP, dove il 46 ha continuato a sfornare sorpassi e prestazioni di tutto rispetto anche a 42 anni, nonostante un mezzo (la Yamaha Petronas) inferiore alla media.
Così riguardi il gesto scaramantico con cui Lindsey lambisce l’impugnatura dei bastoncini e ti convinci che sia piuttosto simile ai guanti di Valentino che, prima di accucciarsi accanto alla moto, disegnano immaginari cerchi concentrici sulle saponette della tuta, all’altezza delle ginocchia. Pensi alla bellezza dei gesti più impercettibili e all’apparenza insignificanti, ma che racchiudono una storia infinita. Piccole cose che non cambieranno mai, come il sorriso di Vale e Vonn al termine di una gara in cui avranno anche chiuso quattordicesimi, ma si sono divertiti. Bastava osservarli in griglia e al cancelletto di partenza per capire che in loro, in quei rituali fatti di carezze, ci sarà sempre qualcosa di diverso. Qualcosa di unico.