Luigi Mantegna è un personaggio controverso nel mondo della boxe, noto soprattutto per la sua incredibile sfortuna sul ring che, negli anni, gli ha collezionato una fama unica nel suo genere. Nato e cresciuto in Ciociaria, Mantegna ha sempre avuto una passione smisurata per il pugilato. Fin da giovanissimo ha trascorso ore interminabili allenandosi, costruendo quello che sapeva sarebbe diventato il proprio futuro. Tuttavia, la sua carriera è stata segnata da una serie di sconfitte, arrivate nonostante il duro lavoro e l'impegno costante. Sembra che la vittoria sia sempre sfuggita dalle sue mani ma Luigi non ha mai perso la sua determinazione, continuando a lottare nonostante per lui diminuiscano, di anno in anno, le probabilità di vincere. La sua storia - quella di un atleta che non si è fermato davanti alle sconfitte - ha attirato l'attenzione dei media e degli appassionati di sport, diventando simbolo di perseveranza. Pur non avendo vinto alcun titolo, Mantegna è diventato un'icona nel suo campo. La sua umiltà e la sua dedizione sono ammirate da tutti quelli che lo conoscono, dentro e fuori dal ring, e con il tempo si è trasformato in un esempio vivente di come la determinazione sia il valore più grande da ricercare, anche trovando dentro le proprie sconfitte un po' di sana ironia. Oggi ci racconta, in un'intervista in esclusiva, la storia della sua passione, dai momenti più difficili fino alla presa di coscienza più importante.
Partiamo dalle basi: come è nata la passione per la boxe? Quando hai iniziato?
Ho iniziato prima di partire per il servizio militare. Ho sempre praticato molto sport: piscina, palestra e, qualche volta, ho giocato a calcetto. Non è nata subito una vera e propria passione. Il mio attuale maestro all’inizio insegnava gratis nella palestra di una scuola. Non avevo molti soldi per frequentare altre palestre e ho cominciato lì, insieme a mia sorella ed un amico. Mi è piaciuto molto perché l’allenamento era molto vario. Non era la classica palestra. Il mio -ancora attuale- maestro Nando mi ha dato una grande mano. Esattamente come la mia famiglia: non mi hanno mai messo i bastoni tra le ruote. Da lì sono entrato nel circuito del mestierante. Ho trasformato la mia passione in lavoro. Anche se non è un vero e proprio lavoro. Non vivo di questo.
Hai detto di essere entrato nel circuito del ‘’mestierante’’. Che cosa significa nel gergo della boxe?
Mestierante, collaudatore o in inglese ‘’Journeyman’’. Il collaudatore serve a far accumulare esperienze e punteggi alle giovani promesse, o a risollevare le carriere dei colleghi. Non salgono sul ring per vincere. Chiamano collaudatori i tipi tosti, proprio come me. Servono ai campioni per valutare la propria resistenza fisica, come reagire ai colpi e capire fino a che punto possono spingersi. In quel caso, chiamano persone come me per mettersi alla prova. Non sono un vero e proprio collaudatore. Delle volte mi chiamano perché alcuni campioni devono accumulare punteggi. Io non salgo sul ring per farmi battere. Non c’è niente di scritto. Non ci si mette d’accordo prima.
Quindi, che altro lavoro fai?
A volte dimentico anche io che lavoro faccio. Faccio il DJ, l’animatore, lavoro in radio, faccio il giardiniere e insegno pugilato in palestra. Qualche volta mi chiamano per fare l’autista e trasportare mezzi pesanti. Ho appena rinnovato la patente CQC. Inoltre, quest’anno mi sono iscritto ad un corso da OSS e dovrei sostenere l’esame a gennaio dell’anno prossimo. Spero di trovare un lavoro più stabile con questo corso ed essere più tranquillo economicamente.
Cosa provi prima di un incontro? Come gestisci la pressione?
Pressione zero. Anzi, alcune volte mi auto interrogo e penso: ‘’Vorrei provare un po’ di agitazione prima di un incontro. Ti dà la carica per affrontare le sfide’’. Io invece salgo sul ring sorridente. Il mio avversario è carne ed ossa, proprio come lo sono io. Lui può sentire il dolore proprio come me. Non ho paura. Sul ring può succedere di tutto. Le situazioni possono variare da un momento all’altro e fino ad ora me la sono cavata.
Su 110 incontri ne hai persi 105. Come vivi la sconfitta?
Non me ne importa un granché. È una cosa che mi piace. Anche se non è troppo remunerativa, non rinuncerei mai alla boxe. Vivo di passioni. Quando mi ruppi la mandibola ho pensato che fosse finita. Dopo l’intervento, ho passato tre mesi e mezzo di convalescenza. Pensavo di non poter più risalire sul ring. Ma non mi sono arreso e sono tornato subito a combattere. Non riesco a spiegare cosa provo entrando in palestra. In quelle due ore stacco da tutto il resto. Nonostante i problemi e i mille impegni quotidiani, lì non penso più a niente. Finisco l’allenamento, faccio una doccia, vado a casa e ricomincio.
Hai detto di non essere mai andato KO. Giusto?
Esatto. Non sono mai andato KO. Mi sono sempre rialzato. Ho accumulato solo cinque KO tecnici. Funziona così: se ti fai eccessivamente male, l’arbitro ferma l’incontro. Il medico controlla che sia tutto ok. Se fermano l’incontro viene definito KO tecnico perché non si può più continuare a combattere.
Qual è l’incontro che ricordi meglio?
Ho fatto sessantasette incontri da dilettante e centodieci da professionista. Ne ricordo la maggior parte. Ho combattuto contro tanti campioni e ognuno mi ha lasciato qualcosa.
Nonostante le sconfitte, continui a salire sul ring. Cosa ti spinge a continuare?
Non voglio mollare la boxe. Non voglio mollare la palestra. Stare lontano dalla mia passione più grande sarebbe impossibile per me. Proverei per sempre un gran rimorso. L’adrenalina e la fatica mi spingono a continuare. Devi superare te stesso. Perché la boxe è anche questo: superare i propri limiti. E non c’è limite più grande di sé stessi. Anche se a volte non è facile conciliare tutti gli impegni, non amo accontentarmi. Non riuscirei mai a fare un lavoro ripetitivo solo per il guadagno. Quel mondo non mi appartiene. Anzi, mi spegnerebbe. Amo cambiare. Amo la libertà. Amo fare quello che mi piace. E mi ritengo molto fortunato.