Rieccoci qui. L’Italia del calcio è ancora bloccata in quel loop temporale infinito di delusioni e psicodrammi, che si ripresentano a intervalli regolari. Un anno fa ci fu il fracasso degli Europei, poi arrivarono le appassionanti vittorie di Parigi e Bruxelles, a settembre e novembre. Adesso lo 0-3 rimediato in Norvegia, che sembra certificare, dopo una sola partita delle qualificazioni, che per tornare ai Mondiali per la prima volta dal 2014 bisognerà passare di nuovo da un drammatico spareggio.
Di chi è la colpa? La vulgata insiste sul solito punto: alla Nazionale manca talento. Un tempo avevamo Baggio, Totti, Del Piero, Vieri e Montella; oggi Raspadori, Orsolini, Lucca e Retegui. Il downgrade è evidente, e non avrebbe senso negarlo, ma quella dei giocatori scarsi è solo una comoda scusa, che peraltro non regge a un’analisi un minimo più approfondita. Negli ultimi anni, l’Italia ha deluso contro squadre che sulla carta le erano indiscutibilmente inferiori: la Svezia nel 2017; la Bulgaria, la Svizzera, l’Irlanda del Nord e, infine, la Macedonia del Nord nel 2021 e nel 2022; l’Albania nel 2024.
I giocatori azzurri, sulla carta, sono senza il minimo dubbio superiori a questi avversari. In questa preoccupante crisi, è stato anche conquistato un Campionato europeo, secondo molti per pura fortuna, al pari di quello della Grecia del 2004, ma anche qui basta guardare il percorso di quella Nazionale per smentire lta diceria. L’Italia di Mancini arrivò agli Europei del 2021 dopo una fase di qualificazione sontuosa: 10 vittorie su 10, 37 gol fatti e 4 subiti (ovvero secondi miglior attacco e difesa dell’intera fase). Numeri che smentiscono anche la scarsa qualità dei nostri attaccanti: solo il Belgio segnò più di noi.

Risulta allora evidente che i problemi dell’Italia del calcio stanno altrove, e che forse bisognerebbe innanzitutto depurare il dibattito da queste vuote retoriche, comode solo per spostare pesi e responsabilità e non risolvere mai nulla. Mettendo da parte anche gli inutili nostalgismi della nostra epoca, bisognerebbe innanzitutto riconoscere che la Nazionale è storicamente fragile. La tanto decantata epoca d’oro a cavallo tra gli anni Novanta e Duemila, segnata dalla nostra migliore generazione di sempre, ha conquistato solo un trofeo (il Mondiale del 2006), peraltro a fine ciclo. Prima ci sono state prestazioni molto criticate e sottotono: fuori ai gironi a Euro 1996; vicina a uscire agli ottavi contro la Norvegia ai Mondiali del 1998 e ai gironi del 2002 col Messico; fuori ai gironi di Euro 2004. E poi critiche ai giocatori sopravvalutati, agli allenatori incompetenti (anche se erano i migliori, da Sacchi a Maldini, fino a Trapattoni), allo scarso carattere del gruppo. Oggi nessuno se lo ricorda più, ma era questa la realtà di quella squadra, fino all’exploit di Lippi in Germania.
Al momento è ovvio che l’unica soluzione a breve termine è quella di cambiare ct. Spalletti non è mai sembrato pienamente padrone della situazione, ma piuttosto confuso e contraddittorio. Ha iniziato col 4-3-3, poi ha ripiegato sul 3-5-2, non ha mai trovato una struttura solida né ha mai risolto i problemi del rendimento offensivo (che si trascinano dalla seconda fase di Mancini). Il simbolo della sua gestione è il caso Acerbi: a marzo il ct faceva capire che, per ragioni anagrafiche, il difensore dell’Inter non avrebbe avuto grande spazio in Nazionale; poi, pochi giorni fa, cambia idea e lo convoca. Acerbi rifiuta, sentendosi poco rispettato, e Spalletti polemizza ai microfoni di Sky Sport.

La verità è che probabilmente la FIGC avrebbe dovuto esonerarlo già dopo gli ultimi Europei: gli vennero invece riconosciute delle attenuanti, e così si è perso un anno nella ricostruzione del progetto. Come lo si era perso dopo il flop di Mancini contro la Macedonia del Nord, perché per i dirigenti del nostro calcio ogni scusa è buona per ritardare delle riforme di cui si avverte l’urgenza da una ventina d’anni. L’Italia è rimasta indietro nella formazione tecnica, rispetto al resto d’Europa: altre federazioni, come Belgio, Germania e Inghilterra, hanno saputo invertire la rotta, mentre noi siamo rimasti al palo.
Gli Azzurri sono altamente competitivi a livello giovanile, ma non riescono a fare il salto di qualità nel professionismo. Dal 2018 a oggi abbiamo vinto un Europeo U17, più altre due finali e una semifinale; un Europeo U19 più una finale e due semifinali; e abbiamo raggiunto una finale e una semifinale del Mondiale U20. Di queste generazioni, pochissimi giocatori sono oggi nel giro dell’Italia maggiore, e nessuno è ritenuto una potenziale stella: Ricci, Gabbia, Buongiorno, Coppola, Frattesi, Udogie.
C’è un aspetto di sviluppo, così come ce n’è uno tecnico, legato al limitato numero di trequartisti ed esterni d’attacco capaci di creare superiorità numerica col dribbling, arma quanto mai fondamentale nel calcio di oggi. Ma ce n’è pure uno psicologico che andrebbe affrontato: l’Italia di questi anni entra in crisi ogni volta che si trova addosso la minima pressione e la necessità di fare risultato. La gestione di Ventura era stata molto soddisfacente fino alla trasferta di Madrid, quando la stampa e lo stesso ct si dicevano fiduciosi di poter espugnare il Bernabeu: finì 3-0 per la Spagna, e gli Azzurri precipitarono in una spirale negativa (due vittorie per 1-0 con Israele e Albania, un 1-1 con la Macedonia), che condusse all’eliminazione contro la Svezia. La stessa cosa si è rivista nel post-Europeo del 2021, nel play-off coi macedoni, a Euro 2024, e di nuovo nel primo tempo di Dortmund contro la Germania, lo scorso marzo, fino a venerdì sera in Norvegia.
Tutti questi sono sintomi di un movimento ormai al capolinea, che deve essere completamente ripensato (e doveva esserlo già almeno dopo i Mondiali del 2010). Ma il dubbio è se la dirigenza della FIGC sia in grado di portare avanti questo cambiamento: Gabriele Gravina è in sella dal 2018, e nonostante i numerosi flop la sua poltrona sembra più solida che mai. Il calcio italiano è paralizzato fin dalla testa: ciò che vediamo in campo ne è solo la legittima conseguenza.
