C’è una regola a cui dovrebbe attenersi sempre chi fa il mestiere del raccontare: non cedere all’impulso del “io”. Però MOW è lo spazio di libertà che delle regole se ne frega anche un po’ quando intrappolano le emozioni e, allora, ci sta che un pezzo possa iniziare così: devo delle scuse a Jorge Martìn. Gliele devo io e probabilmente non sono neanche l’unico. Perché come tutti quelli della mia generazione sono cresciuto con la colonna sonora dei cinquantini e dei 125 Aprilia eternamente nelle orecchie, mentre Max Biaggi, Loris Capirossi e poi un certo Valentino Rossi, sempre in sella a delle Aprilia, davano da mangiare roba buonissima a una passione che diventava ogni giorno più potente. C’ero rimasto male per Aprilia. Perché l’ho sempre visto come il marchio che risponde a dinamiche differenti: ha aspettato Iannone anche quando tutti l’hanno messo sulla croce, ha chiamato “capitano” fino a renderlo simpatico un Aleix Espargarò che la simpatia non sa neanche dove sta di casa, ha coccolato Max Biaggi (che, dicono, sia stato fondamentale in tutta questa storia con Martìn) e ancora lo fa come l’Italia non è capace di fare con niente del suo patrimonio culturale e storico. Perché è “piccola e nera” in mezzo ai colossi coloratissimi e perché le storie di quelli che partono svantaggiati e arrivano in alto sono sempre quelle a cui si aggrappa con tutta la forza chi è nato e cresciuto in provincia.

Sì, c’ero rimasto male anche perché avevo creduto che Jorge Martìn potesse essere l’uomo giusto nella squadra giusta e perché quando è successo tutto quello che è successo ho pure creduto che il destino ti toglie per poi ridarti con gli interessi. Ma non avevo calcolato, appunto, gli interessi. E la possibilità di uno sguardo rivolto altrove per denaro. Ho pensato, insomma, che Jorge Martìn avesse deliberatamente voluto ignorare quanto è amabile Aprilia accecato, piuttosto, dall’odore dei soldi che altri gli offrivano. Magari è pure la verità, ma la narrazione attuale è un’altra e vale la pena crederci. Anche perché, almeno personalmente, un segnale e un invito a pensare diversamente m’era arrivato da Danilo Petrucci. Una mezza chiacchierata privata in cui l’ex pilota della Ducati, probabilmente percependo giudizio e negatività sulla questione Martìn, mi disse testualmente: “non giudicare, non puoi capire cosa significa per un pilota dover stare giù dalla moto. Forse i soldi neanche c’entrano. Martìn in questo momento potrebbe essere letteralmente perso e basta”.
Un passaggio neanche riportato o comunque ammorbidito, poi, nell’intervista pubblicata a Petrucci, perché vissuto quasi come qualcosa di personale, come un avviso non al giornalista, ma alla persona che fa il mestiere del raccontare. E ho cominciato, in effetti, a provare a restare libero dal giudizio pesante. Aspettando e basta. Fino a Brno, fino alle dichiarazioni di domenica sera di Jorge Martìn in cui ha detto “ricomincio a vivere, ho ritrovato il mio posto nel mondo”. Esattamente, insomma, ciò che poche settimane prima aveva detto con altre parole Danilo Petrucci. E lì, solo lì, è stato chiaro il capolavoro che ancora una volta Aprilia è riuscita a fare, perché Massimo Rivola ha semplicemente capito ciò che tutti, invece, abbiamo ignorato: nessun pilota privato di una moto è mai davvero lucido. E non c’è stato neanche da forzare, ma solo da restare saldi sulle proprie posizioni. Magari spingendo solo per far rispettare, ad esempio, l’accordo sulla partecipazione all’Aprilia All Stars. Ecco, a quell’evento, 50 giorni fa visto che era il primo giugno, Jorge Martìn c’era arrivato, addirittura, con la paura. “Ho seriamente pensato – aveva detto – di venire qui con delle guardie private, perché temevo che i tifosi potessero avercela con me e invece sono stato accolto benissimo, ringrazio la gente di Aprilia”.
Sembrava una affermazione così, ma forse è stata la chiave di tutto. O, almeno, la chiave della prima porta prima di tutte le altre che hanno riportato il cuore a riaprirsi. Grazie a tutta Aprilia, compresi quelli che la tifano e basta e che quel giorno a Misano non si sono lasciati scappare neanche mezzo fischio,masolo applausi e calore. In soli 50 giorni. Che sono bastati a dimostrare che la moto è ancora l’unica vera anti-Ducati credibile e che Aprilia è famiglia veramente. Che punta i piedi, sì, ma mentre abbraccia. Solo che se fai il pilota puoi capirlo esclusivamente dall’unica prospettiva in cui i sensi ti si aprono tutti: da sopra la moto. Per sentire, per annusare, per vedere, toccare e assaporare. E fanc*lo i soldi, i capricci, i manager che spingono, le questioni di principio e tutto ciò che sta intorno all’unica cosa che un pilota vuole davvero: correre per vincere. Magari mentre ci si sente a casa. A Jorge Martìn è successo a Brno e adesso la storia può ricominciare. Da dove? Dalle parole dette in sala stampa a Brno, che sono di un ragazzo che a conti fatti ha solo vent’anni e che sente di esistere solo nella misura in cui può essere pilota. E a cui il cuore non è tornato solo a battere a Brno, ma s’è fatto sentire pure più forte.
“La mia frequenza cardiaca non è scesa sotto i 195 per tutta la gara, di solito sono sotto i 170 – ha raccontato - Un settimo posto è un ottimo risultato dopo quello che abbiamo passato, ma, come ho detto, il risultato non conta; l'importante è colmare quel divario tra il corpo e la mente e concentrarsi su dove migliorare con la moto. Io esco molto con il corpo in piega rispetto al Bez e secondo me è su questo che dovrò concentrarmi, perché su tutto il resto ho trovato una Aprilia che mi piace tantissimo. Ora arriva la vacanza, che per me non sarà una vacanza: sarà il momento di recuperare il tempo perso e allenarmi duramente per essere più preparato per la seconda metà. Aprilia? Lo so che è difficile da credere, ma siamo già come una famiglia. Quando ero infortunato, a casa, non avevo il mio posto nel mondo, oggi sono contento perché dopo tutto quello che è successo ho fatto una gara molto costante e il cambiamento della moto è stato incredibile: Aprilia, Bez e Sava hanno fatto un lavorone. Io? Mi hanno insegnato che devo sempre affrontare problemi e paure e questo significa una cosa sola: andare all’attacco". Signori, le guardie del corpo, ora, rischiano di servire a tutti gli altri.