Non si sa dove iniziare per raccontare la storia di Marco Negri, il calciatore più rock ed enigmatico degli anni ’90. Zazzera alla David Bowie, carattere introverso e fiuto del gol. Una carriera dolce amara, fatta di anni di pallone di provincia, la Serie A con il Perugia, la porta gonfiata davanti ai 50 mila tifosi di estasiati, incontri indimenticabili, uno su tutti l’amicizia con Paul Gascoigne, e momenti di buio. Vero. Pungente.
Come quella pallina di squash che lo colpì in un occhio, gli sfondò la retina e frenò una delle stagioni più incredibili di uno sportivo italiano all’estero. Moody, lunatico, così lo chiamano da quel giorno, in Scozia, lato Rangers. Espressione che dà il titolo anche alla sua autobiografia (Moody Blue), scritta con il giornalista britannico Jeff Holmes.
Marco Negri oggi vive a Bologna, 55 anni pieni della consapevolezza di chi ha capito di aver vissuto un percorso entusiasmante e di possedere, come ci dice all’inizio dell’intervista, “tante storie da raccontare davanti a un bicchiere di vino”. Suo figlio ha scelto un altro sport, il nuoto, ma insieme la domenica vanno allo stadio Renato Dall’Ara, dove il calcio è sì qualcosa che conta, ma che si vive con una passione misurata, quasi snob. “Ci piace andare a vedere le partite del Bologna. E’ una bella squadra, diverte. Italiano sta facendo un ottimo lavoro, sogniamo l’Europa anche quest’anno”. Lo abbiamo intervistato e chiesto tutto quello che conta.

Partiamo dall'attualità: da bolognese adottato come ti spieghi il fallimento di Thiago Motta alla Juve?
“Credo che Thiago sia bravissimo. Allenare la Juve però non è come stare a Bologna. Qui sei in una piazza che ama il calcio, frizzantina, ma nessuno ti chiede di vincere i campionati. Quando vai alla Juve hai tutto da perdere e ogni partita è una finale, che sia contro l’Empoli, il Psv Heindoven o la Fiorentina. Forse qualcosa non ha funzionato nelle motivazioni che ha provato a trasmettere alla squadra. Sai poi qual è la questione?”.
Prego.
“Negli anni ’90 per essere chiamati ad allenare la Juventus dovevi fare tante stagioni di un certo livello. Oggi basta un anno buono e ti mettono a guidare una barca molto complessa. Si è troppo frettolosi nei giudizi”.
Le prime parole che mi hai detto sono state: “Appartengo ormai alla preistoria del calcio”. È solo una questione del tempo che è passato o c’è altro?
“Si parla di due sport diversi. Quando giocavo io, in campo scendevamo con i numeri dall’1 all’11 che identificavano i ruoli. Il 9 era il centravanti, il 7 l’ala destra. E così via. Dopo si è passati ai numeri personalizzati con i nomi. Per non parlare della vita degli atleti. Prima si andava al campo alle 2 del pomeriggio e alle 17 eravamo a casa. Oggi alle 8 la mattina ti presenti al centro sportivo e ti controllano la dieta, ottimizzano la tua condizione fisica, ci sono metodi super aggiornati per il recupero dagli infortuni. Tutto è programmato e ben approfondito. L’ho vissuto personalmente anche quando ho avuto la fortuna di lavorare nello staff dell’Udinese nel 2018 con Massimo Oddo”.
Meglio ora o prima?
“Non c’è una risposta. Sotto un certo punto di vista è meglio ora perché il calciatore di Serie A è un professionista di alto livello. Giusto così. Però è tutto troppo programmato, anche lo spettacolo è programmato per esigenze televisive”.
Quelli che hanno vissuto gli anni ’90 e 2000 dicono che nel calcio contemporaneo c’è meno talento. E’ vero?
“Non è vero! Il talento c’è, non si fa sbocciare. Si lascia meno spazio all’ego dei ragazzi, si vuole analizzare tutto, ma ci sono cose che si scoprono lasciando libera la creatività del calciatore talentuoso. Lasciamoli giocare, soprattutto quando devono formarsi. Oggi si arriva a 20 anni è si è già calciatori fatti, come si dice, si è nel prime. Si spreme tutto e subito. Poi nel percorso della carriera non si vedono miglioramenti. Prendiamo ad esempio Vlahovic, non vedo una crescita del giovane attaccante che si metteva in mostra con la Fiorentina”.
Chi è il tuo centravanti preferito della serie A?
“Nel calcio moderno la parola centravanti sembra obsoleta. Ora al “9” viene chiesto di fare la prima pressione, legare il gioco, lavorare per i compagni. Raramente si cercano i cosiddetti giocatori da area di rigore. I migliori sono Retegui e Kean, ma sono contento per Raspadori che finalmente sta trovando lo spazio che merita”.
Giocassi oggi saresti tu il titolare della Nazionale?
“Questo non lo so, ma se ti faccio i nomi degli attaccanti della mia generazione capisci quanto fosse difficile”.
Spara.
“Vieri, Del Piero, Inzaghi, Del Vecchio, Chiesa. Continuo?”.
No, vorrei tornare indietro nel tempo. Quando si iniziava a parlare del giovane Marco Negri, dopo qualche stagione in giro da Udine a Cosenza. Parliamo dell’anno della promozione in serie B con la Ternana.
“Stagione importante in un campionato durissimo. Il girone del sud di serie C1 era un inferno. Ricordo una scena incredibile il giorno dello spareggio contro l’Acireale, fuori casa. Eravamo al centro del campo prima del fischio d’inizio e buttarono dentro due polli vestiti con il drappo della Ternana. Era un messaggio per noi: “sono arrivati i polli”. Un mio compagno, forse per la troppa tensione, sferrò un calcio violento contro uno dei due animali che volò un paio di metri più avanti in una nuvola di piume. Vincemmo uno a zero con un gol nel finale e nel sottopassaggio successe di tutto. Lui prese la multa dal WWF. Oggi sarebbe finito in galera”.
Da Terni a Perugia per diventare uno dei calciatori più iconici della storia dell’Umbria.
“Arrivai a Perugia a 26 anni, nel pieno delle mie potenzialità. Il primo anno vincemmo subito il campionato di serie B e segnai 18 gol. La stagione successiva andai a tabellino 15 volte, però purtroppo retrocedemmo nonostante 40 punti in campionato. Nella serie A attuale saremmo stati salvi a febbraio”.
Era l’età dell’oro del calcio a Perugia con il presidentissimo Luciano Gaucci.
“E’ stato uno degli ultimi presenti-tifosi, lo chiamavo Luciano uragano. Ogni tanto si arrabbiava e ci mandava in ritiro un mese, una follia. Lo ricordo sempre con piacere, avevamo un bellissimo rapporto. Di calcio ci capiva, sapeva riconoscere il talento. Lo diceva sempre anche ai suoi allenatori. Capitava addirittura che a fine primo tempo scendesse negli spogliatoi, li mettesse all’angolo e ci dicesse lui come giocare. È stato un uomo generoso, lasciato forse troppo solo”.

Il Perugia quell’anno scese in serie B, ma tu nella stagione 1997/98 volasti ai Rangers di Glasgow, l’ala protestante della capitale Scozzese. Uno dei club più antichi e iconici al mondo. Come nacque l’opportunità?
“In Scozia presero Porrini e Amoruso. Poi ci andò Gattuso, venuto via da Perugia. I dirigenti dei Rangers vennero a vedermi e decisero di acquistarmi”.
I giornali brittanici riportarono la notizia e si dice che i tifosi dei Rangers, quando Walter Smith dichiarò di averti strappato alle potenze del calcio italiano, ebbero uno shock. Dovevi essere l’erede niente meno che di Ally McCoist, una divinità da quelle parti.
“In Italia tendiamo a sottovalutare certi campionati. Vestire la maglia dei Rangers di Glasgow significa entrare nella storia di un grande club. La loro chiamata mi entusiasmò, volevo misurarmi con i migliori del mondo in Champions League. Ero mentalizzato e forte, non avevo paura di niente. E’ stata una stagione folle, pazzesca. In Scozia si gioca per intrattenere il pubblico, al massimo dal primo all’ultimo minuto. In Italia si pensa troppo al risultato”.
I Rangers erano nel pieno della loro svolta cattolica. Amoruso divenne capitano, tu l’idolo di Ibrox Park. Il campionato iniziò in modo clamoroso: 23 gol in 10 partite. La cinquina al Dundee e la rete nell’Old Firm, l’infuocato derby contro l’odiato Celtic, ti elevarono a leggenda. Tutto il mondo ti mise gli occhi addosso e anche la maglia della nazionale italiana sembrava già lavata e stirata per te.
“Che squadra, che meraviglia! Emozioni indelebili. Dietro a me avevo Laudrup e Gascoigne che fornivano assist, io la mettevo dentro. Segnare un gol davanti a 50 mila tifosi ad Ibrox fa venire la pelle d’oca, ancora oggi ho i brividi”.

In quella squadra eri diventato amico con uno dei calciatori più folli di sempre: Paul Gascoigne
“Che genio Gazza! Dopo Crujiff il miglior centrocampista del ventesimo secolo. Persona splendida, con un modo di pensare e agire diverso dagli altri. Il giorno del debutto in campionato arrivammo tutti puntuali a cena, poi riunione tecnica e letto. Mancava solo Gascoigne. Non c’erano i telefoni cellulari, era impossibile trovarlo. Due ore dopo, quando stavamo tornando in camera, si aprì l’ascensore e lo vidi sbucare scalzo, in mutande e canottiera. Dal buffet prese due panini, se li mise nelle mutande e tornò in camera salutandoci a malapena. Il giorno dopo mi fece due assist fuori di testa. Il meglio lo dette però quando andammo a caccia insieme. Scegliemmo una riserva dove si prendevano le lepri con i falchi. Ci dissero che erano i migliori della Gran Bretagna. Mentre andavamo nel bosco con l’istruttore che ci spiegava quanto questi uccelli fossero eccezionali, Gazza dallo zaino prese i nostri tramezzini e li fece mangiare ai falchi che erano dietro con lui. Al momento di cacciare sembravano addormentati e non riuscivano a volare. Paul rideva come un pazzo perché i falchi quando mangiano dormono tre giorni”.
Vi sentite ancora oggi?
“Ogni tanto ci scambiamo qualche messaggio perché voglio sincerarmi che stia bene. Sappiamo i problemi che ha dovuto affrontare, credo siano una conseguenza della sua estrema sensibilità. In vacanza a New York mi lasciò senza parole. Camminavamo e sulla strada vide un senzatetto che chiedeva l’elemosina. Gazza si fermò e gli disse che voleva portarlo a mangiare con noi al ristorante. Lo convinse e ci sedemmo a tavola tutti insieme. A quest’uomo con vestiti strappati e capelli appiccicati alla testa, brillavano gli occhi dalla felicità, anche a Paul”.
La stagione in cui il mondo conobbe Marco Negri non finì come era iniziata. I gol furono tanti, 32 in 29 partite, solo quattro nella seconda parte del campionato. In mezzo, l’infortunio più assurdo di sempre: una pallina di squash che gli perforò parte della retina in un giorno di riposo con il compagno Sergio Porrini. Poi la polmonite, l’ernia al disco. Il titolo per due punti a favore del Celtic, i mondiali ’98 sfumati.
Marco non era più lo stesso, diventò moody. Anche Glasgow iniziò a stargli stretta e i rapporti con il club precipitarono. Fuori rosa e senza stipendio, quindi di ritorno in Italia. L’ultimo ballo tra Vicenza, Bologna e Livorno in serie A e B. Poi la fine di una carriera pazza, la più rock della storia del calcio italiano, con qualche se rimasto appeso nell’aria che Marco Negri preferisce lasciare lì dove sono. Perché, in fondo, quello che conta è “avere storie da raccontare davanti a un bicchiere di vino”.

