Matteo Flamigni è nelle corse da prima di Dorna, prima dei quattro tempi e prima che si il motomondiale chiamasse MotoGP. Ha lavorato coi più grandi e si perde tra gli aneddoti di una vita meravigliosa e difficile, perché rimanere rilevanti in questa evoluzione incessante, per un pilota ma pure per un tecnico, è come surfare su di un treno cercando di evitare i pali dell’alta tensione. Eppure, da quando nel 2004 è diventato il telemetrista più famoso della storia grazie a Valentino Rossi non sembra invecchiato più di tanto. Pizzetto, basetta controllata, la faccia di uno che potrebbe fare il deejay a Riccione e che invece è ingegnere elettronico. Da Valentino ha preso tanto, di sicuro l’istinto di darti la risposta che ti serve e rendendola il più interessante possibile: “Eh, ma fai conto che sono qua da trent’anni!”, risponde quando glielo facciamo notare. Poi si blocca, si gratta la tempia con indice e medio. “A parte gli scherzi, ora che ci penso questo è veramente il mio trentesimo anno qui dentro”. Un altro figlio del motore, della bicicletta e delle barzellette micidiali raccontate in dialetto romagnolo con un bicchiere di vino in mano. Anche se Matteo Flamigni non è nato tra la Panoramica e il mare.
Sei di Modigliana, un paesino di quattromila anime nell’entroterra tra Forlì e Faenza. Com’è lì?
“Ah, si sta da Dio. Io ho una storia un po’ articolata, sono nato a Faenza perché a Modigliana nel 1970 chiusero l’ospedale. A quattro anni mi sono trasferito a Bologna con i miei nonni e ho vissuto con loro… sai, i miei genitori erano separati. Fatto sta che sono stato a Bologna dal ’74 al 2001, quando ho deciso di trasferirmi a Modigliana perché un ceppo della mia famiglia ha origini lì”.
Quaindi appena hai potuto sei tornato a casa.
“Sì, anche perché lì ho conosciuto quella che poi è diventata mia moglie e le due cose… si sono unite. Onestamente facendo questo lavoro per me sarebbe più comodo vivere a Bologna, ma da casa ci metto al massimo un’oretta ad arrivare all’aeroporto. Vivo in un paese estremamente tranquillo e per me che sono appassionato di biciclette è il paradiso terrestre”.
Ah, le biciclette: meglio la velocità o il fuoristrada?
“Delle due preferisco la strada, anche se non disdegno delle belle uscite in offroad. Diciamo che in una settimana di riposo dei sette giorni che ho a disposizione ne passo quattro con la bici da strada e tre con la mountain bike”.
E il motore invece? Quando hai cominciato ad appassionarti?
“Ah, da subito. Mio babbo a Modigliana era il classico meccanico e nella sua officina vendeva bici e scooter, ho bellissimi ricordi e un bel po’ foto che mostro molto volentieri di quel periodo: a sei anni, nel 1976, sono stato a Imola per la 200 Miglia con Cecotto, Barry Sheene, Steve Baker, Giacomo Agostini… L’amore è nato da subito, poi mi ricordo che il mio babbo mi insegnava a pulire i carburatori, smontarli, rimontarli. Avrò avuto dieci, dodici anni. E quando il mondo tecnologico si è evoluto dalla meccanica mi sono appassionato anche all’elettronica, ho finito per laurearmi in ingegneria elettronica ma sempre con un occhio alla meccanica”.
Ti sei acceso vedendo i primi computer?
“Quando arrivarono pensammo che il futuro fosse orientato un po’ al digitale, all’informatica. Quindi ho fatto l’ITI a Bologna e mi sono diplomato in elettronica e informatica, poi da lì ho fatto ingegneria elettronica”.
Sei il primo laureato della tua famiglia?
“No, mia mamma è laureata in lettere ed è stata insegnante di italiano alle scuole medie, anche se ora è in pensione”.
Hai cominciato a lavorare con le moto assieme a Gianmaria Liverani. Come è iniziato tutto?
“Allora… lui è di Modigliana, che poi è il motivo per cui è iniziata: eravamo amici, nella stessa compagnia, lui sapeva che io stavo studiando ingegneria elettronica e quando uno sponsor gli regalò un sistema di acquisizione dati pensò che io potessi dargli una mano a farlo funzionare”.
Quindi non esisteva ancora la figura del telemetrista.
“Eh no, è stato bello proprio perché è iniziato tutto un po’ così, per gioco. Metti un sensore alla ruota, lavori sulle sospensioni, poi magari provi anche a mettere il sensore del gas, i giri motore… Vediamo dove chiudi il gas, dove apri, compara i giri: è nata per gioco, ma veramente per gioco, e da lì è diventata una professione. Considera che all’epoca soltanto la Ducati ufficiale aveva un sistema di acquisizione dati montato sulla moto. E poi c’eravamo noi con Liverani che faceva paura, in quegli anni volava. Fai conto che quando andavamo a Laguna Seca fino a pochi minuti dalla fine delle prove libere era il primo degli europei… e c’erano fior fior di piloti”.
Poi un bel giorno arrivi al motomondiale e un bel giorno ti trovi a lavorare con Max Biaggi.
“Prima di Biaggi ho lavorato con Capirossi, con Cadalora, Alex Barros… Te la racconto in ordine: a fine ’94 inizio a collaborare con Gianmaria Liverani e lo facciamo anche nel ’95. Poi nel ’96 lui smette di correre e io proseguo nel mitico Team Gattolone con Pierfrancesco Chili, con cui vinciamo un sacco di manches. Bello, divertente. A quel punto, nel 1997, Davide Tardozzi mi chiama nel Team Powerhorse Yamaha in 500, con Luca Cadalora e Troy Corser. Quel team l’anno prima correva in Superbike e aveva fatto il passaggio al motomondiale. Accettai di buon grado questo salto, poi per varie vicissitudini e problemi economici decisi di cambiare squadra e nel 1998 e 1999 lavorai con il Team Gresin. Il primo anno con Alex Barros sulla Honda ufficiale quattro cilindri, poi sul 250 con Capirossi con la Honda ufficiale. Lui era andato via dall’Aprilia per quel contatto con Harada… ci divertivamo, poi il due tempi dava un bel gusto. Dopo quei due anni col Team Gresini accettai l’offerta della Yamaha ufficiale con Biaggi con cui lavorai nel 2000, 2001 e 2002, facendo anche il passaggio al quattro tempi. Da lì ho fatto il 2003 con Marco Melandri, mentre dal 2004 ho seguito Vale fino a fine carriera, incluso il passaggio in Ducati nel 2011 e 2012”.
Il passaggio dai motori due tempi a quelli quattro tempi dev’essere stato uno sconvolgimento enorme. È stato un po’ come il passaggio dalla fotografia a rullino a quella digitale?
“Mi piace questa metafora, sì. Assolutamente. Se prima c’erano sistemi di acquisizione di un certo livello, con il quattro tempi i sistemi si sono evoluti all’ennesima potenza. Quello che è cambiata di più è stata la possibilità di modificare il comportamento del motore con le mappature, quindi andare a lavorare sul freno motore, il traction control, le mappe di potenza. Cose che nel due tempi… potevi avere il Power Jet, che sul dritto ti spruzzava un po’ di benzina in più, ma erano robine così. I traction control erano molto rudimentali. Per non parlare poi dell’avvento della piattaforma inerziale, che ci ha dato la possibilità di gestire le potenze in base all’angolo di piega”.
Valentino Rossi: cosa ricordi del suo primo approccio con te?
“Bello da subito devo dire. Un ragazzo solare, curioso, voglioso di vincere e di fare bene. Meticoloso, molto preparato e molto umile fra l’altro, perché a volte mi diceva ‘Matteo, dimmi cosa devo fare che io lo faccio’. Anche se quando è arrivato in Yamaha aveva già vinto cinque mondiali”.
Hai lavorato sia con Max Biaggi che con Valentino Rossi: in cosa erano simili?
“Io credo che i campioni abbiano sempre una grandissima meticolosità, cercano il pelo, lavorano di fino, smussano ogni piccola sbavatura. Ed è lì che viene fuori la prestazione. La pignoleria nel cercare di cucirsi addosso la moto in maniera perfetta è una caratteristica di entrambi”.
Erano gli anni d’oro dell’ultima modifica la domenica mattina…
“Ne ho fatte tante! Però devo anche dire una cosa: tutti credono che fosse chissà che, ma noi potevamo farla perché avevamo un pilota come Valentino, che era di una malleabilità e di un’intelligenza… gli si diceva ‘Guarda, Vale. Facciamo la modifica per quel problema lì, provala nel warm up, vedi un po’ come riesci a gestirla’. Lui si concentrava su quegli aspetti, funzionava. Ma non tutti i piloti riescono ad usare una moto completamente differente dal sabato alla domenica”.
Ammesso che tu abbia il pilota giusto per provarci, la modifica del warm up si potrebbe fare anche nella MotoGP di oggi?
“Diciamo che potendo provare molte cose nella Sprint, quindi lavorando su molte cose che altrimenti avresti visto solo domenica, c’è la possibilità di lavorare molto il sabato e a maggior ragione nel warm up, perché hai anche le informazioni della Sprint. Una volta era più un salto nel buio”.
Vivi questa carriera esagerata con Valentino Rossi, lui nel 2021 si ritira, per voi è durissima Però tu diventi capotecnico. Come è andata?
“Devo dire la verità, non mi vedevo proprio centrato come telemetrista di un altro pilota che non fosse Vale. Volevo cambiare anche io, provare qualcosa di diverso. Ne ho parlato con Uccio, avevamo in mente questa nuova squadra e gli ho proposto di fare il capotecnico. Uccio è stato contentissimo e Vale anche, così mi hanno dato da gestire Marco Bezzecchi. Io negli ultimi anni avevo già in testa di fare questo passaggio, per cui ho sempre assorbito come una spugna tutto quello che vedevo fare ai capotecnici con cui lavoravo. Soprattutto Jeremy Burgess, è stato il mio grande maestro. Anche di vita”.
Gli telefoni mai?
“No, non ci sentiamo spesso. Le cose sono un po’ cambiate a livello tecnico. Considera che lui quasi non apriva il computer. Comunque ecco, gli ultimi capotecnici li ho studiati con attenzione, per capire come fare in determinate situazioni. Poi il fatto di lavorare con Vale ha aiutato tantissimo, quando lavori con un pilota così assorbi, impari. Ti fai un database di informazioni spaventoso”.
Il famoso libro mastro di Matteo Flamigni!
Matteo Flamigni fa un saltello sul divano, si batte le mani sulle ginocchia, sorride.
“Che è qua! Ce l’ho, te lo faccio vedere! È bellissimo… ci sono delle considerazioni di Vale che sono disarmanti. Ogni tanto vado a leggere… che ne so, cito una pista a caso: “Aragon, se l’asfalto non è almeno 30 gradi bisogna usare la soft perché la dura, sull’edge, comincia a perdere grip da metà gara in poi, quindi secondo me è meglio…”. Capisci? Ci sono delle informazioni… poi è chiaro che col passare del tempo e l’evoluzione tecnica si perde molto, ma nei risultati dei primi anni del Bez c’è molto di Valentino”.
Ci sono momenti in cui leggi una nota del libro mastro e ti ricordi del momento esatto in cui l’hai scritta?
“Assolutamente, ti dirò di più: tutte le volte in cui ci ho scritto qualcosa l’ho fatto con la convinzione che mi sarebbe servito in futuro. Non scrivevo tutto, però Vale ti dava delle chicca… sapevi che stavi ascoltando qualcosa di particolare”.
Marco Bezzecchi e Valentino Rossi: quanto sono diversi?
“Marco all’inizio era molto istintivo a differenza di Vale, che vedevo sempre molto calmo, ponderato. Marco è un po’ più romagnolo, se vogliamo. Quando le cose non andavano bene all’inizio si agitava un po’, era un po’ focoso. Io ho cercato di trasmettergli una sorta di metodo di lavoro, che per altro ho imparato da Vale vedendo quello che faceva. Devo dire che sta pagando, abbiamo fatto Rookie of the year 2022, l’anno scorso abbiamo vinto tre gare, undici podi, terzo nel mondiale… un sogno. Riuscire a portare un ragazzino dalla Moto2 a questi risultati in MotoGP è il risultato di cui vado più fiero al netto del mondiali che ho vinto con Vale”.
Dev’essere stata la conferma dell’aver scelto bene . È un po’ un nipote per te?
“Un figlio, ma sì, il figlio maschio che non ho mai avuto! Io ho due figlie, tra l’altro l’età è simile perché una ha vent’anni e l’altra diciassette… sono tifosissime di Marco, in particolare la grande”.
Ti dispiace un po’ non poter andare con lui in Aprilia?
“Diciamo che mi rattrista perderlo come pilota, perché ha un grandissimo talento. Però come ho sempre detto a lui io avevo già un contratto in essere con la squadra attuale anche per il 2025 ed eticamente non mi sembrava corretto andare a rompere contratti in essere per fare questo passaggio. E poi devo dire la verità, io qui sto molto bene: ho un bellissimo rapporto con Uccio, con la dirigenza, con Pablo, con Valentino… mi sembrava un po’ di tradire quella che è stata la mia carriera, io devo tanto a Vale per quello che mi ha permesso di raggiungere e per quello che mi ha insegnato, mi sento parte integrante di questa struttura. Noi parlavamo di questo team da prima che nascesse e mi sento molto coinvolto. Non me la sono sentita di abbandonare il progetto”.
Dalla sala accanto sentiamo Alessio ‘Uccio’ Salucci, in riunione, che chiama Flamigni: Matteee?! Matteooo! Abbiamo sforato di brutto il tempo concordato per l’intervista, lui deve andare a lavorare sulla gara. Flamigni fa una mossa con la mano alla Obi-Wan Kenobi per farmi capire di non preoccuparmi, dice che non c’è problema. Capisco che più che mezz’ora ci vorrebbe mezza giornata.
Cosa ti ha insegnato Marco Bezzecchi che con Valentino non avevi imparato?
“Beh, lui mi ha confermato che con il lavoro duro si fanno i risultati. Magari con Vale, che è un nove volte campione del mondo, il weekend partiva già in una determinata direzione e rimaneva quella, invece col Bez magari ti trovavi a faticare il venerdì, ma si capiva che non dovevamo lasciarci abbattere e stare calmi, lavorare, migliorare prima il sabato e poi la domenica… così abbiamo fatto la differenza”.
Ora arriva Franco Morbidelli, che a proposito del VR46 Racing Team parla sempre di un cerchio che si chiude. Lo è un po’ anche per te?
“Allora, io conosco Franco da un sacco di anni, forse dal 2013. Ricordo che venne in Giappone per sostituire un pilota infortunato del Team Gresini e in circuito lo portavamo io e Bernie (Bernard Ansiau, storico meccanico di Valentino Rossi, ndr) praticamente nel bagagliaio della Fiat 500 che avevamo a noleggio perché dormiva nel nostro hotel. Era molto umile, taciturno, aveva quasi un timore reverenziale nei nostri confronti che eravamo i meccanici di Vale, mentre lui era un pilotino che veniva dall’Europeo Superstock 600 venuto per sostituire un pilota della Moto2. Io l’ho conosciuto così. E mi aspetto di trovare un pilota molto veloce, vice campione del mondo MotoGP e campione del mondo Moto2. Mi aspetto che arrivi motivatissimo, perché trova una struttura con tanti amici che lo accoglierà a braccia aperte. Cercheremo di dargli tutta la disponibilità e la professionalità di cui siamo capaci, poi magari ci rincontreremo l’anno prossimo io e te per tracciare un po’ un resoconto della stagione”.
Ne ho segnato qualcuno: Diego Armando Maradona, Brad Pitt, Michael Jordan, Ronaldo il fenomeno. Qual è stato il personaggio più figo da avere lì nel box con te?
“È dura, eh! Hanno tutti qualcosa, faccio fatica a dirti chi sia stato il più emozionante perché comunque nel loro ambito sono stati tutti dei personaggi pazzeschi. Vabbè, Brad Pitt… cazz, ti arriva nel box Brad Pitt. Ti arriva nel box Maradona, che bacia il polso a Vale e Vale che gli bacia il piede in griglia. Poi la canzone nel box… ancora mi viene la pelle d’oca, mi dispiace davvero quando penso a com’è finita. Però l’aneddoto più bello rimane quello di Michael Jordan, un mito assoluto”.
Quando Valentino lo portò in macchina?
“No, no. Era la domenica sera di Valencia, nei primi anni di Vale in Yamaha e Dorna organizava questa festa di fine mondiale a cui venne anche Michael Jordan, che era ospite del weekend di gara. E lui, Michael, si è messo a fare il barista a questa festa e mi ha preparato un mojito con ‘ste mani grandi come due badili. Lo avevamo già visto a Laguna Seca, perché lui è talmente appassionato di moto che si è fatto un team, aveva questa Suzuki grigie con il suo logo, il Jumpman, sulla pancia della carena. Fatto sta che la sera a Valencia, in discoteca, mi ha fatto un mojito. Michael Jordan a me. È uno dei miei ricordi più belli”.