Tanti anni fa, dentro lo spogliatoio di una squadra di calcio di dilettanti, un allenatore che è stato maestro di vita e pure amico, aveva scritto sul muro questa frase: l’uomo grande ammette l’errore, quello piccolo prova a giustificarlo. A quella frase, così come a quell’allenatore, maestro di vita e amico, è venuto da pensare ieri, dopo aver ascoltato l’intervista di Marc Marquez alla fine della Race Of Champions del World Ducati Week. Quello che è successo è noto e non serve stare a raccontarlo. Serve, semmai, sintetizzare quello che si è visto.
La regia di Misano ha fornito quel poco che poteva fornire: l’immagine non chiara di Marc Marquez che esce dall’ultima curva e Nicolò Bulega che finisce sulla ghiaia, allargando sconsolato le braccia. In tempi di smartphone e social, però, c’è voluto ben poco perché spuntasse fuori un altro video. Da un’altra angolazione. Ancora non abbastanza chiaro, ma sufficiente a capire che il contatto c’è stato: Marc Marquez ha toccato Bulega all’ultima curva della Race of Champions del WDW. Quello su cui si può discutere, semmai, è se quel contatto sia stato abbastanza per far finire il pilota della Superbike e la sua nuovissima Panigale V4 sulla ghiaia del Marco Simoncelli World Circuit. Bisognerebbe poter vedere le carene delle due moto, ma anni d’esperienza nelle corse ci lasciano pensare che le carene non le vedremo mai. E che si aspetterà solo che si finisca di parlarne. Anche perchè si rischia di fare peggio.
Il punto, però, non è se Marc Marquez è entrato sporco o meno su Bulega per salvare una domenica in cui stava prendendo paga a parità di moto dal suo futuro compagno di squadra e da due piloti che corrono in Superbike. Perché quello ci sta. Chiunque conosce minimamente i piloti è perfettamente consapevole che non ne esiste uno che no n pensi solo e esclusivamente a vincere. A arrivare davanti. A migliorarsi. Anche quando fanno le scale di casa. Anche quando giocano a scopone al bar con gli amici. E Marc Marquez è il pilota per eccellenza. Nessuno come lui, almeno nella storia recente delle corse, ha impersonato meglio quella fame cieca, quella ferocia nel voler vincere anche quando s’è già vinto abbastanza. E persino quando c’è proprio niente da vincere. Il Marc Marquez di ieri a Misano è lo stesso del 2020 a Jerez, quando sembrava indemoniato per andare a riprendere il la vetta della corsa e magari provare pure a umiliare tutti gli altri. Ieri al Marco Simoncelli World Circuit, Marc Marquez è stato capace di recuperare quasi un secondo e mezzo in un giro. E’ la sua magia. E’ il suo talento. E’ la sua capacità di essere spettacolare sempre e è anche la ragione per cui uno così è solo da ammirare. Ammirare e basta.
Bisogna chiedersi, però, fino a che punto si è piloti. E magari trovare una convenzione. Un limite da mettere. Un segno che vale per tutti. Persino per Marc Marquez. Ecco, quel segno nelle corse in moto potrebbe essere anche semplice da individuare: si è piloti fino a che si sta sopra alla moto. Poi basta. Poi bisogna tornare uomini. E magari saper ammettere pure l’umana debolezza d’essere stati piloti fino al secondo prima. Di aver risposto a quell’istinto lì punto e basta. Senza stare a pensare a altro. Nel caso di Marc Marquez, ad esempio, senza stare a pensare che non ci si giovava niente, che quella del WDW doveva essere una festa degna di finire con tutte le moto sane al traguardo e nessuna polemica. Senza stare a pensare nemmeno agliimabarazzi che si sarebbero potuti generare. Marc Marquez nella Race of Champions ha fatto il pilota. E non c’è niente di male. Anche se è finita come è finita. E’ la sua bellezza. E’ la meraviglia delle corse: muscoli e nervi, istinto e ferocia che vincono su tutto. Poi, però, deve intervenire il limite. Quel segno lì di cui si faceva cenno poco fa.
Ecco perché di imperdonabile in Marc Marquez non c’è la sportellata a Nicolò Bulega. Ma tutto quello che è successo dopo. Con dichiarazioni che rendono l’immagine di un gran pilota che non riesce a essere altro che un pilota. E è un limite grosso. Che ha rischiato di costare caro allo stesso Marquez già tante volte in carriera. Affermazioni del tipo “Con Bulega vedremo di salire sul podio insieme”, oppure “Regalerò a Bulega il mio casco” sono inaccettabili. E imperdonabili più della sportellata. Perché raccontano di un uomo che sembra sentirsi un gradino sopra e che tratta un altro ragazzo, un altro pilota, come lo sfortunato di turno che alla fine potrebbe essere contento lo stesso se gli si consente di mettere i piedi sul podio insieme a lui o se gli si regala il casco. Caro Marc, ma scherziamo? Tra l'altro Bulega è un pilota che guadagna tanto, ma comunque molto meno di Marquez e serve rispetto, perchè la passione è la stessa anche se gli incassi sono inferiori. Anche perché, fino a quella sportellata, Bulega era il pilota che gli stava davanti e che gli era stato davanti fin lì a parità di moto. Non un brocco qualsiasi. Sarebbe stato più opportuno, dannatamente più umano e pure meravigliosamente più significativo per Ducati uscirsene con una dichiarazione più spiazzante. Qualcosa del tipo “scusate, ma io sono un pilota: ho visto un buco, una possibilità di mettermi davanti e ci ho provato perché un pilota risponde sempre e solo all’istinto di provarci”. Presentarsi, invece, davanti alle telecamere arrivando a dire “non ho capito se l’ho toccato o meno” è prendere in giro. Oppure è il segnale di qualcosa di molto pericoloso che si chiama dispercezione. E chi soffre di dispercezioni, generalmente, non ha la possibilità nemmeno di prendere la patente per andare a fare la spesa al supermercato. Figuriamoci per correre in moto. Quindi in prima battuta Marc Marquez ha preso in giro tutti dicendo di non sapere se ha toccato Bulega o meno, oppure, se davvero non lo sa, c’è da farsi due domande serie sulla capacità di quel ragazzo di percepire ciò che accade. In seconda battuta, poi, c’è l’arrivare a dire “lo faccio salire sul podio con me” o “gli regalo il casco” che sono il segno di un provare a giustificare che nulla toglie all’immensità del pilota che Marc Marquez è, ma che di dubbi ne lascia tanti – forse anche dentro la stessa Ducati che lo ha scelto – su tutto ciò che Marc Marquez non è quando non sta sopra una moto.