Khvicha Kvaratskhelia. C’è chi lo copia e incolla da Google e chi mente.
KK, perché il destino è dolce quanto beffardo quando ti strappa via un idolo, Kalidou Koulibaly, un gigante d’ebano, buono e prepotente fisicamente e tecnicamente e te ne restituisce uno più longilineo dalla Georgia. Perché solo a Napoli un ragazzo africano che ha fatto tifare Senegal ed esultare per una Coppa d’Africa un’intera città vive lo stesso struggimento di uno di Tbilisi, passando per quel Dries Mertens che da Lovanio è venuto fin qua a tenersi una casa da sogno per le sue vacanze napoletane, ora che è in Turchia. Napoli attrae, ruba il cuore, te lo restituisce più grande. E come insegna uno che qualcosa in comune con questo ragazzo ce l’ha, Ezequiel Lavezzi, non puoi né sai dimenticarla.
Khvicha se n’è accorto subito, o quasi. Alla sua prima al Maradona ha regalato una doppietta indimenticabile e sfacciata. Il primo goal lo fa raccogliendo un colpo di tacco di Zielinski correndo in controtempo, controllo a seguire in orizzontale e poi esplode col destro un tiro a rientrare, bacia il palo violentemente e poi insacca. Quasi una provocazione, o almeno così l’ha presa Lorenzo Insigne che su Instagram ne ha postati due dei suoi, non riuscendo a trattenere lo struggimento di chi si credeva rimpianto disperatamente e si ritrova dimenticato precocemente. Un autogol bello e buono, perché ai napoletani, già non devastati dal suo addio, quelle due perle hanno ricordato come un’intera squadra fosse ostaggio di un’ossessione, un marchio di fabbrica, e che del tiraggir, pur essendo finito pure nella Treccani, al San Paolo prima e al Maradona poi ricordano l’80 per cento dei tentativi sbagliati (e spesso forzati) e non quelli messi dentro (e sono generoso a ipotizzarne uno su cinque, molto).
Kvara, come molti pigramente ormai lo chiamano (ma anche Kvore ‘e Napule o Kvaravaggio), con l’incoscienza di chi non teme né cerca paragoni, in due partite ha spazzato via possibili rimpianti e sicure diffidenze. Lo ha fatto, appunto, con sfacciataggine d’altri tempi: con quel gol di testa a Verona che Lorenzinho il Magnifico (Insigne) per limiti fisici e strutturali non poteva neanche immaginare, con il tiro a giro che gli ha mostrato stupito la passione dei napoletani. Da qui l’esultanza sentimentale, la N di Nitsa, la sua fidanzata aspirante medico rimasta in Georgia perché deve laurearsi ma pure perché lui non vuole distrarsi; quella politica con il bacio alla bandiera patria sul parastinco; quella sportiva battendo la mano sul cuore, sullo stemma della sua squadra.
Ma Kvaratskhelia lo vedi dal coraggio e dalla fantasia. Il coraggio di un assist al Bentegodi, che vede quello che altri neanche provano a pensare, per Zielinski, che deve solo metterla dentro, ma che ha il merito di parlare la sua stessa lingua calcistica. O, altro atto sfacciato, in quello stop a volo, con il piede che calamita il pallone scomodo e potente al suolo, a metà secondo tempo di Napoli-Monza sulla trequarti. Altra specialità della casa del predecessore, quasi a voler dire “tranquilli, so fare tutto”.
Faccia pulita ma furba, il nostro è uno di quelli che ha un senso del dovere feroce e implacabile, ma anche la voglia di divertirsi, ha fame di migliorare ma non la falsa modestia di chi vuole far finta di essere umile. Altrimenti non ti presenti in Italia imitando l’esultanza “night, night” del migliore, la stella NBA Stephen Curry, suo idolo incontrastato, pure più di CR7 (ama il basket e i Golden State Warriors). E presto ci aspettiamo un’esultanza alla Gomorra, magari dedicata a Genny Savastano, visto che il primo tifoso azzurro a sapere del suo acquisto fu Salvatore Esposito, bloccato dall’agente di Khvicha storico, Jugeli Mamuka (ex centravanti, come il papà di KK) in missione segreta a Roma ma che ha fatto saltare la sua copertura per un selfie con l’attore, famosissimo anche a quelle latitudini.
Ma quello che ci arrapa tutti, tifosi napoletani e non, del numero 77 azzurro è qualcos’altro. Perché ci sono i giocatori bravi, i campioni, i fuoriclasse, e ci sono i calciatori eccitanti, quelli che quando giocano sono imprevedibili, caldi, spiazzanti e che ti provocano una fitta di calore e felicità quando disegnano arte calcistica. Quando sperimentano palla al piede cose che noi umani non riusciamo neanche a immaginare.
Lui è un giocatore degli anni ’80, ma non lo sa e gioca negli anni ’20 del terzo millennio. Lui è uno di quelli che abbiamo capito poco, erede diretto dei grandi che resero la serie A il campionato più bello e ambito del mondo e col compito ingrato e immane di traghettare il pallone nella modernità.
Verissimo, ha qualcosa di Kakà, nel fiuto per la porta e nella visione di gioco. E pure di Pavel Nedved, in quell’istinto e razionalità continuamente sintetizzati in un atletismo tecnico di rara precisione. Calciatori moderni che avevano però già scavallato il millennio. Alcuni ci vedono pure Zidane e forse, con le debite proporzioni, c’è qualcosa, soprattutto tatticamente, che lo ricorda.
Ma noi che amiamo questo sport anche e soprattutto per l’epoca in cui potevi giocarlo a livello professionistico con i baffoni e un fisico da impiegato delle Poste (oddio a dir la verità quello del mio quartiere è più scolpito del David) siamo lì a pensare impudicamente a paragoni solo apparentemente più riduttivi. Ma se sai di calcio, anzi proprio di pallone, quello che si gioca nelle gallerie savoiarde, in spiaggia o davanti alle chiese, ma anche nelle squadre sbagliate, quelle che non vincono sempre, allora sai che sono i migliori. Se vedo Kvaratskhelia io penso a Gianfranco Zola, ho voglia di chiamarlo Magic Box, ci rivedo l’esplosività, il dribbling raffinato e potente, il tiro preciso e la creatività altra e alternativa. Oppure Yuri Djorkaeff, il Serpente, che con lui condivide il sangue dell’Est (Yuri di origini polacche, cosacche e armene, Khvicha georgiano) che aveva quella capacità unica di essere un 9 e mezzo, capace di rifinire come di concludere scegliendo sempre la soluzione più efficace e al contempo imprevista, capace di giocate coraggiose e diverse, difficili da decifrare persino per i compagni. Entrambi con una velocità di pensiero innaturale e affascinante. E per chi ricorda un Napoli sulla via del fallimento ma agli ultimi colpi di rene, pure un Paolo Di Canio molto più forte, perché il terzo gol di domenica scorsa, il secondo suo, ha qualcosa di quello che l’intemperante e passionale Paolino fece in un Napoli-Milan di 28 anni fa.
Kvaratskhelia vivrà anche giornate buie: deve, ha ragione Spalletti, domare la sua emotività, la voglia di stupire, e imparare a difendere, incombenza che contro le mediocri Verona e Monza non ha dovuto assolvere (e in cui Insigne era un maestro). Ma in quel dribbling fatto di finte e controfinte nel 3-0 contro la squadra brianzola, non a caso segnata in cooperazione con quel geometra soave che è Stanislav Lobotka, c’è la sua voglia di essere differente, di fottersene del calcio moderno che vuole tutti codificati e recintati in compiti precisi e limita(n)ti, ma anche la sua applicazione nell’essere parte di una squadra e di un collettivo, mai avulso, ma sempre altro. Non siamo più abituati a chi sa essere individualista e uomo squadra, a chi ha il coraggio di prendersi responsabilità, attirare palloni e aprire spazi, intuire traiettorie impossibili, verso la rete o un compagno, e allo stesso tempo essere atleta e stratega come ora è purtroppo necessario, perché gli schemi, se asfittici, tolgono quasi sempre poesia. Ma se un poeta lo sei, li rompi, frantumi, superi. Antico e moderno è anche nel modo in cui è stato comprato. Da quel direttore sportivo fenomenale e sottovalutato che è Cristiano Giuntoli, uno che analizza 5 ore al giorno di filmati, che scopre Kim in Cina perché un suo amico di vecchia data gli racconta che è l’incubo dei centravanti rinchiusi in quel paradiso dorato che è la Super League, uno, l’ex fautore del miracolo Carpi, che Khvicha lo tiene d’occhio da tre anni, quando scovò grazie alla sua rete di osservatori quel ragazzo che già da due anni ammaliava il pubblico di casa, davanti al quale aveva esordito a un’età d’altri tempi, pure lei: 16 anni. Con un assist.
Giuntoli è uno che non trascura alcun particolare. Dal chiedere a Gattuso di intercedere con l’amico Kaladze, fino a far innamorare Spalletti di lui nella scorsa primavera, con Luciano che chiedeva quotidianamente della chiusura dell’affare, temendo l’inserimento di altri in extremis. Dalla leggenda metropolitana che sosteneva che i suoi tifosi in Georgia una domenica cambiarono curva all’intervallo solo per vederlo meglio (un aneddoto quasi maradoniano, molto somigliante a quando i supporter dell’Argentinos Juniors rinunciavano a birra, mate e caffè per vedere palleggiare l’imberbe Pibe che allora era solo un raccattapalle, tra primo e secondo tempo) allo sfruttare la guerra in Ucraina e il conseguente crollo della quotazione del numero 77 che deve scappare dalla Russia e dal Rubin Kazan per ripiegare alla Dinamo Batumi. Una furbata che ricorda quella con cui il Napoli prese un altro calciatore che gli somiglia molto, Antonio De Oliveira Filho detto Careca, che al Napoli, complice una scrittura privata e un San Paolo ingenuo, sul Golfo ci finì per soli 2 miliardi e mezzo. E ai più attempati dei tifosi partenopei è proprio lui che torna in mente. Ed è sorprendente che nessuno lo abbia ancora soprannominato Kvareca. Con quel nove brasiliano - che non viene ricordato come uno dei più grandi giocatori della storia del calcio solo perché giocava con Maradona - condivide una tecnica straordinaria, un senso del gol innato, potenza e levità di tocco, capacità di adattarsi ai compagni e di spingersi e spingerli oltre e altrove. Tanto che Careca, come molti a Napoli ricordano, riuscì a illuminare un San Paolo malinconico anche nel post Maradona.
Khvicha, ora arriva il difficile: tutti ti aspetteranno al varco, ti cercheranno procuratori senza scrupoli, i tuoi 21 anni incoscienti potrebbero diventare delle “spalle strette”, ma siamo sicuri che il ragazzo si farà. Perché quegli occhi tradiscono una consapevolezza incredibile. Con quella faccia da attore - per gli intenditori assomiglia a Jim Sturgess, anche se è il sosia di Fabrizio Colica - e quella capacità di riuscire in tutto quello che fa - guardate sui social i suoi canestri - ci mancherebbe pure. Ha la cazzimma, l’applicazione feroce, l’estro del suo paese. Lui, figlio di una Georgia che ha dato i natali a Stalin ma anche a uno degli eroi della perestrojka, Shevardnadze, che sa dare al mondo l’arte della pianista Bhatia Buniatishvili, divina in tutto, ma anche la sfacciataggine di Meliton Kantarija, poco famoso solo perché Eastwood non gli ha dedicato un Flags of our Fathers europeo, visto che fu lui a issare la bandiera rossa con falce e martello, sul Reichstag nella primavera del 1945.
E se passerai le forche caudine della mediocrità ostica della serie A, non ti chiameranno più il Messi georgiano ma ben presto utilizzeranno il tuo illeggibile e impronunciabile cognome (illeggibile come il tuo gioco e le tue intenzioni palla al piede) per definire qualcun altro. A proposito, si dice Cuarascelia. Se lui riesce a fare gol impossibili, noi possiamo fare lo sforzo di imparare l’esatta pronuncia del suo cognome, senza storpiarlo o ridurlo. E se questo ragazzo manterrà tutte le sue premesse e le promesse, allora Tbilisi non rimarrà solo un sogno spezzato per Napoli (era la sede della supercoppa europea nel 2015, anno in cui il Dnipro, grazie alla Gazprom e a un errore vergognoso di un arbitro prezzolato, eliminò nella semifinale di Europa League i ragazzi di Benitez) ma una delle tante città lontane gemellate calcisticamente con la passione inesauribile di un tifo che ama adottare il genio, dipingerne il cuore con i colori del mare e del cielo. Genio per una volta non sregolato, se è vero che il nostro non ha scelto casa a Posillipo come il sudcoreano
Kim, ma a Castel Volturno, scelta già fatta da un altro ragazzo dell’est molto amato dai partenopei, Marek Hamsik.
Benvenuto Kvareca, goditi Napoli e non te ne andare presto, c’è tempo per il pallone d’oro e le Champions al Real. Ora entra nella storia azzurra, che qui nessuno ti dimenticherà.