E ora mettiamoli una sera a cena insieme, Roberto Saviano e Tittia, al secolo Giovanni Atzeni, fantino quarantenne. Potrebbero avere diverse cose da dirsi. A partire, forse, non dal recente trionfo di Tittia al Palio di Siena, ma dalle dichiarazioni che Saviano ha recentemente rilasciato ad Alessandro Cattelan proprio sul Palio e che, una volta pronunciate, hanno rapidamente (e prevedibilmente) fatto il famoso “giro del web”. Il Palio specchio perfetto della nostra Italietta, secondo Saviano: “Se vuoi far capire a uno straniero cos’è l’Italia, devi mostrargli il Palio di Siena. Innanzitutto l’obiettivo non è voncere, ma far perdere l’avversario. Secondo, puoi fare tutto: corrompere il fantino, buttarlo giù. Tutto è possibile. […] Il cavallo che arriva alla contrada è estratto, non è che lo puoi comprare, quindi non c’è lavoro. Non lo alleni tu. Infine, la vittoria consiste in un drappo. Una vittoria bellissima e inutile. Una vittoria in cui c’è dentro l’odio verso chi hai accanto. Infatti le contrade amiche sono quelle distanti, quelle nemiche quelle vicine. L’Italia”. Che a vederla così, la similitudine, per quanto necessariamente stilizzata, ci può anche stare. Punti di vista, si può dire. Che talvolta – questa è la bellezza/stranezza della comunicazione e della sua esistenza sempre travagliata – cozzano, in virtù anche del momento in cui sono espressi. In questo caso cozzano con il sudore e l’energia di una vittoria come quella di ieri, in cui Tittia ha trionfato alla guida del cavallo esordiente Diodoro.

L'Oca, la contrada di Fontebranda, ha dominato il Palio 2025. La stampa chiama Tittia “dominus”. Padrone, perché il Palio di Siena è il suo giardino: ne ha vinti undici. Padroncino, invece, direbbe forse Saviano. Il dominus, ironia della sorte, apre le dichiarazioni post-gara proprio con una frase classica, quasi allegriana: “ho lavorato molto quest’inverno”. Parte proprio dal “lavoro” messo in discussione da Mr. Gomorra. E aggiunge: “Io non ho voglia di rivincita. Corro sempre contro me stesso. Mi piace quello che faccio, amo questa città e non devo dimostrare niente a nessuno. […] Forse avrei voluto fare altre scelte, ma con questo cavallo avevo una conoscenza profonda. Era un debuttante, un po’ acerbo, ma in quattro giorni è cresciuto tantissimo. Mi sono convinto solo nell’ultima mezz’ora che potevamo provarci davvero”. Parole che nascono da Tittia e solo da Tittia, lontane chilometri dall’idea di polemizzare a distanza con Saviano, ma che (re)introducono nella narrazione di “cosa è il Palio” sostantivi e verbi di colore diverso da quelli utilizzati da un Saviano amaro e ficcante. Un evento, quello raccontato da Tittia, che forse non ha a che fare con l’intrepido eroismo dei singoli (o di un’intera contrada) – Saviano (e non solo) innorridirebbe davanti a una tale iperbole –, ma che comunque riguarda anche le nostre umane paure, la nostra determinazione e destrezza nel superarle. Dice il fantino: “Avevo paura solo di rimanere in strada, ma appena partiti la paura è svanita. Non ho mai temuto che potessero riprendermi, ero troppo concentrato. Alle prove sono sempre stato calmo, perché la velocità del Palio non si raggiunge lì. E alla fine è andata proprio come volevo”. Concentrazione, lavoro e velocità nell’Italietta delle tradizioni “negative”, parrebbe. Conclude il dominus: “Cinque giorni vissuti in un clima di massima serenità, mai una pressione. Con me c’erano Federica, Ilaria, i miei genitori, la famiglia di Ilaria, i ragazzi di scuderia: siamo una squadra unica. A loro devo tantissimo. Ogni vittoria è anche loro”. Caspita, e ora che ci piazza dentro anche la famiglia? Non è che al buon Saviano, per quanto appassionato di Palio, dia fastidio anche questo? Lo aspettiamo al varco, magari tra qualche mese, conoscendo i suoi ritmi mediatici, per capire se la similitudine Palio-Italia possa essere aggiornata o approfondita (e se intanto vogliamo approfondirla noi, la vittoria di Tittia, facciamo un salto su La Nazione per leggere il commento di Sergio Profeti).
