Come prima edizione la Coppa del Mondo per club – per quanto rivedibile – ci sta facendo anche divertire. La finale sarà Chelsea-Paris St. Germain, la Conference League conto la Champions League, come da pronostico. Una questione tutta europea, col mondo che guarda e prende appunti. Dopo i match-maratona interrotti a causa di un generico “nasty weather” che spesso ha rischiato di rimare con “mo’ arriva un uragano”. Dopo l’eliminazione di un Fluminense edizione “salvo io tutto il movimento sudamericano!” che, irridente, via social, ha salutato Botafogo e Flamengo appena le due rivali di Rio sono schizzate fuori agli ottavi. Dopo la figura abbastanza mesta – ma in linea con i valori tecnici ed economici a disposizione – di Inter e Juve, poco “minacciose” a livello mondiale… ecco un atto conclusivo che conferma un trend abbastanza scontato: il calcio europeo resta il vertice scintillante di una piramide in cui business e sport costituiscono un perverso e plastico tutt’uno. Così Chelsea-PSG è la fedele imitazione di una qualsiasi finale di Champions degli ultimi 10-12 anni. Italiane assenti – che poi, anche quando sono presenti le cose non è che finiscano benissimo – per uno spettacolo “giochista” (moduli fluidi, pressing alto, velocità nell’innescare l’uomo libero) fra palleggiatori corali. E ieri sera? Ieri sera gli interisti hanno sperato che il PSG, avanti 3-0 dopo soli 45 minuti con il Real (ma dopo 9 minuti conduceva già 2 a 0), potesse sminuzzare i Blancos infliggendo agli spagnoli un passivo in grado di far dimenticare, almeno per un po’, lo 0-5 subito dai nerazzurri in finale di Champions. Finirà 4-0, con i francesi a giocarsi un’altra finale in un’annata che, per ora, li ha visti solo trionfare, in casa e lontano da casa.

Squadra impressionante, l’undici di Luis Enrique. Annichilisce gli avversari a forza di manovre lineari e uomini che smontano le linee altrui con compiaciuta facilità (dov’era l’ex Mbappe?). L’orchestra è stata quella che ha rintronato l’Inter, con Kvaratskhelia, Fabiàn Ruiz e Dembélé che fanno quel diavolo che vogliono come neppure “quelli buoni che al campetto infieriscono sui più imbranati”. Dall’altra parte un Real a lungo inerme, stile-Inter, senza fisionomia di gioco né identità. Tante le somiglianze fra il Real di ieri e l’Inter del 31 maggio. Somiglianze che, per i nerazzurri, da quasi un mese e mezzo avvezzi alla devastante pratica dell’autoflagellazione, si trasformano in sillogismi pressoché automatici: forse sono loro, i francesi, a essere davvero astrali, non noi (oggi, a rimpolpare quel noi, c’è anche il Real, per la miseria!) a essere così scarsi. Si vedrà.
E poi c’è il Chelsea di Enzo Maresca. Nella conferenza stampa pre-semi cozza con i giornalisti brasiliani (“Noi abbiamo giocato 63 partite in questa stagione, voi quante?” chiede Enzo per sottolineare uno stress agonistico sui generis. “Noi 70”, gli rispondono i carioca), ma quasi per ingenuità. Non è uno sbruffone, Maresca. Zitto zitto ha forgiato una squadra (finalmente!) ispirata da una logica abbastanza simile a quella parigina: tanto gioco, tanta sostanza. Squadra bella e pratica, quella inglese. Magari non funambolica come il PSG, ma organizzatissima. Merito evidente di Maresca è stato quello di aver estratto una ventina di giocatori su cui contare da una rosa che, prima del suo arrivo, somigliava all’area partenze dell’aeroporto di Heathrow in un pomeriggio di scioperi. Oggi il popolo Blues è tornato a riconoscersi nella propria squadra, di nuovo affidabile dopo il tramonto del fortunato biennio con Thomas Tuchel alla guida. Sotto con il PSG, ora. C’è il rischio di una figuraccia o, quantomeno, di un brutale ridimensionamento. Che poi, arridaje, è quello che sperano i nerazzurri. Mica perché ce l’abbiano coi londinesi, no affatto. Ma solo perché quel dannato 5 a 0 di Champions troppo a lungo è stato l’evento-perno in grado di rimettere in discussione quattro anni di gestione Inzaghi e il valore dell’intero sistema calcio italiano. Ora che le buscano anche gli altri, dall’armata di Luis Enrique, è arrivato forse il momento di leggere quella catastrofe sportiva con occhi meno sanguinanti.
