Valtteri Bottas si "allenava al dolore". Lo ha detto un anno dopo aver lasciato la Mercedes, alla fine del 2021, tra i fischi di chi, già da tempo, lo considerava inadatto ad occupare uno dei sedili più ambiti di tutta la Formula 1, quello al fianco di Lewis Hamilton nella squadra che per quasi un decennio ha catalizzato questo sport. Lo ha detto perché lontano dalla pressione di essere il secondo, in un mondo in cui "il secondo è il primo degli sconfitti", ha capito qualcosa su di sé, su quello che conta, e ha messo insieme i cocci di un passato di "allenamento fino allo stremo" che riguarda i suoi primi anni nella massima serie, quelli in Williams, quando tutto valeva lo sforzo, o almeno, così credeva.
Perché la Formula 1, e il motorsport in generale, è un mondo di uomini, fatto da uomini, popolato da uomini, un mondo in cui la potenza e la resistenza sono le qualità più importanti da avere, da coltivare e mostrare sempre. Dove c'è una guerra reale, fisica, e poi c'è una guerra psicologica. Dove ognuno, ogni singolo appassionato, può esprimere la propria opinione, il proprio dissenso, la propria rabbia. Dove Valtteri Bottas non è un pilota, è un "maggiordomo" al servizio di Hamilton e della Mercedes, che non vale il suo posto, il suo sedile, la sua stessa presenza in Formula 1.
Voleva essere un buon pilota, voleva davvero essere il migliore. In Williams voleva dimostrare di meritare il passaggio in Mercedes, e poi, una volta passato nel top team, voleva cercare di sconfiggere Hamilton, riuscire in quello per cui ha lavorato tutta la vita: diventare un campione del mondo di Formula 1, certo non un secondo. Ma non ce l'ha fatta e questo lo ha distrutto.
È la faccia di una storia che non vogliamo guardare mai, quella degli sconfitti. Di chi protegge, soffre, si arrende, sta alle spalle della gloria e ne vede solo il riflesso. È la faccia che, con una dichiarazione arrivata totalmente inaspettata, ha deciso di mettere in luce proprio Bottas: "Mi sono allenato al dolore, sia fisicamente che mentalmente. Ma la cosa mi è sfuggita di mano ed è diventata una dipendenza. Non mi è mai stato diagnosticato nessun disturbo alimentare, che era però sicuramente presente".
Non è questo il luogo in cui siamo abituati a sentir parlare di disturbi alimentari, però. E Valtteri Bottas non ha, e non ha mai avuto, l'aspetto che consegnamo a quel tipo di malattia. Non lo vediamo, in pista concentrato dentro a una monoposto, con quell'ombra addosso. E proprio per questo non gli prestiamo, e non gli abbiamo mai prestato attenzione.
Sono lì per fare altro, i piloti. Per essere velocissimi, i migliori di questa generazione. Potenti, possenti, perfetti. L'alternativa? Via, avanti il prossimo che i sedili sono solo venti e i ragazzi talentuosi che aspettano un'occasione molti di più: "Quello che facevo non era molto salutare, volevo essere il migliore e pensavo di dover fare in questa maniera. Se la squadra diceva che dovevo pesare 68 chili e io pesavo 73 chili, allora facevo di tutto per raggiungere l’obiettivo". E ad aggiungere dolore al dolore la consapevolezza che tutto, dal lavoro alla gloria, si può fermare da un momento all'altro: "La morte di Bianchi mi ha sconvolto, sono andato da uno psicologo, mi dicevano che ero un robot, che non provavo sentimenti e non avevo altra vita al di fuori della Formula 1".
Ma c'è una vita fuori, ha capito Valtteri. C'è un modo, e sa di averlo trovato. Adesso è il momento di dirlo a tutti gli altri, perché questa faccia esiste, anche nel motorsport. E continuare a ignorarla non aiuterà nessuno.