Mancano un paio d’ore al via della gara di Moto2 e nel camion tecnico di Fantic sembra che sia solo giovedì e che non stia per arrivare quella quarantina di minuti in cui ci si gioca tutto. Invece è domenica, ma è tutto in ordine, ognuno fa il suo con evidente concentrazione, ma anche con assoluta serenità e Aron Canet (che da lì a poco sarebbe passato secondo sotto la bandiera a scacchi, dietro al leader della classifica mondiale, Ai Ogura, e davanti a Tony Arbolino, ndr) fa su e giù tra i camion stesso e il box con un piatto di riso in mano e gli occhi di chi è consapevole che da lì a poco potrà togliersi un’altra bella soddisfazione su un circuito che gli piace e in una gara che rischia d’essere bagnata, visto che il cielo promette nulla di buono. Ecco, la calma apparente è la prima cosa che colpisce anche quando si apre la porta del piccolo ufficio di Roberto Locatelli. E’ stato campione del mondo con la 125 nel 2000 con il mitico team di Vasco Rossi, poi ha lavorato per Valentino Rossi e l’Academy e, adesso, è team manager proprio di Fantic, in Moto2. A ricordarlo quando faceva il pilota e a vederlo oggi da fuori sembra uno di quei piccoletti sempre a gas aperto. Invece poi, faccia a faccia, capisci che tutta quella calma apparente la trasmette lui. Perché è vero che è un ex pilota tutto istinto e velocità, ma ha un inaspettato lato da filosofo. Uno che va a fondo, insomma, e che ha capito – grazie all’esperienza e a una vita intera passata nel mondiale – che la velocità non è mai figlia della frenesia e meno che mai del metodo improvvisato.
"Io non pensavo che mi sarei trovato così bene in questo ruolo – ci racconta – All’inizio avevo pure dubbi se potessi essere capace o meno, ma la proposta di fare il team manager m’è piaciuta da matti subito e ho deciso di provarci".
Come è andata?
Stefano (Bedon, ndr) me ne aveva parlato due anni fa, dicendo che m’avrebbe visto bene a fare il team manager. E quindi, come un pilota quando deve fare una curva, magari ti prepari, ma poi devi farla perché arriva e sta lì. Ecco, ho deciso di fare la curva. Ho pensato a tutto nel giro di pochissimo, al grande cambiamento che sarebbe stato, a quello che lasciavo e a cosa avrei trovato: è stata questione di secondi. E ho detto sì. Sai quando capisci che passa un treno e vuoi salire? Non ho detto sì per fare in fretta, ma perché ho pensato anche agli anni passati, all’esperienza che ho fatto in VR46 e che, visto chi fa quello proprio in VR46, avrei potuto stare vicino ai piloti con un modo tutto mio. Perché vanno sì stimolati, ma pure protetti e difesi. Con modo, con educazione, se serve anche con un po’ di distacco, perché i piloti sono i nostri gioielli.
E’ stato un cambiamento significativo anche nel quotidiano?
No, ho vissuto sempre da zingaro e da zingaro continuo a vivere. Ho una figlia che è bravina nello sci e, andando avanti, rischiamo di trasferirci con la famiglia per darle l’opportunità di allenarsi meglio. Ma a me queste cose non spaventano: sono sempre in giro da una vita e da dove parto cambia poco. Quello che conta sono le persone: le persone sono casa.
L’aspetto più impattante per te passando dal ruolo che avevi in VR46 a quello che ricopri adesso in Fantic?
Non lo definirei impattante, ma sicuramente di molto diverso c’è che adesso le mie parole o le mie proposte hanno un peso differente. Non perché prima non venissi ascoltato, ma è chiaro che ora la gerarchia, anche se il termine non mi piace, è diversa. Diciamo che prima erano pensieri e punti di vista, oggi sono decisioni o partecipazioni consistenti alle decisioni. Quindi è diversa anche la responsabilità, perché comunque gli errori sono sempre dietro l’angolo. Però l’esperienza mi ha insegnato che sbagliare serve quanto vincere. Io forse da pilota ho sbagliato più di quanto ho vinto, però adesso è come se fossi uno grande che parla ai piccoli per provare a spiegare che la cosa che conta di più non è l’errore o la cosa azzeccata, ma la reazione all’errore o alla cosa azzeccata. Ecco, sulla reattività facciamo un gran lavoro con i piloti, in particolare con Canet.
A proposito: Aron Canet ha la nomea di uno con un carattere particolare, come va con lui?
Il carattere particolare ce l’ha chiunque faccia il pilota, trovami un pilota normale e ti pago una cena. Se sei normale non fai il pilota e ovviamente mi ci metto anche io nel mucchio (ride, ndr). Aron? Non fraintendermi, per carità, ma io mi sto innamorando di lui e del carattere che ha, sta nascendo anche una bella amicizia.
Questo spiega il perché di una mossa che da Canet non ci si sarebbe aspettati: il casco speciale dedicato proprio a te…
Questa cosa mi ha emozionato davvero tanto. Per il gesto di Aron, che ha riprodotto il mio casco con, sotto, le grafiche del suo, ma anche perché è la prima volta che mi vedo girare dal vivo. Cioè, quando correvo lo portavo in testa il mio casco, quindi, a parte in televisione, non mi vedevo mai . Adesso è come se mi vedessi da fuori, ma la performance è live. Bellissimo. E bellissimo gesto. Al di là del tributo, che apprezzo tantissimo, Aron è un ragazzo con le idee chiare e un pilota con un talento mostruoso. Iolo chiamo ‘il mio centauro’ perché secondo me è perfetto per questa moto. Ecco, se insieme a una moto si potesse progettare direttamente anche il pilota perfetto per quella moto, allora l’accoppiata qui sarebbe proprio con Aron Canet. Quando è tutto a posto riesce a danzare sulla moto in una maniera che è unica e che ho visto solo in lui. Ho avuto la fortuna, la tremenda fortuna di lavorare con Valentino Rossi e alla corte di Valentino Rossi, ma mi rendo conto che Canet è speciale. L’ho detto più volte, senza paura di essere considerato matto, ma io Canet lo paragono a Casey Stoner. Certo, non ha vinto quanto Casey, ma è un perfetto come Casey. Poi questo perfetto va vestito, colorato e magari anche un po’ accompagnato e il resto deve farlo lui.
Anche il soprannome di Fabio Quartararo, Diablo, ha a che fare con te, lo sapevi?
Sì, lo sapevo, anni fa ci abbiamo anche scherzato su. Perché mi avevano raccontato la storia: correva con un mio casco replica e c’era su la testa del diavoletto. E da lì, appunto, El Diablo. Bello, no?
La MotoGP cambierà radicalmente dal 2027 e si parla con sempre più frequenza anche di cambiamenti in vista per la Moto3. La Moto2, a tuo avviso, di cosa ha bisogno?
Sicuramente non di una rivoluzione. Qualcosa da migliorare ci sarà come sta in tutte le cose, ma penso che questa categoria sia perfetta per preparare piloti alla MotoGP. Uccio Salucci, che ha conosciuto da dentro con la VR46 tutte le categorie del motomondiale, dice sempre che la più difficile in assoluto è la Moto2. E’ una categoria che prepara davvero e, a parte qualcuno che forse ha bruciato le tappe, molti dei campioni del mondo della Moto2, o anche di quelli che in Moto2 hanno fatto bene, poi hanno fatto bene e fanno bene anche in MotoGP.
Tu hai provato una di queste moto?
Sì, ma quando il motore era ancora quello della CBR. Molto divertente, ma sicuramente molto più facili delle due tempi. Le due tempi erano una roba che non si racconta. Attenzione, però, perché io parlo di divertimento, di girare in maniera più facile e intuitiva, performare è un’altra cosa. Per fare andare forte una Moto2 di oggi c’è da essere già piccoli campioni, ma a livello di divertimento si riesce a farle andare, mentre con le 2 tempi ho visto tanti giornalisti o tante persone che volevano provarle, ai tempi, non riuscire nemmeno a mettere le ruote fuori dal box. Però lo ripeto e su questo non voglio essere frainteso per nessun motivo: non significa che chiunque oggi può salire su una Moto2 e fare tempi dignitosi. Un conto è girare, un altro è andare forte davvero.
A proposito di “andare forte davvero”, molti piloti dicono che di piste belle ce ne sono tante, ma l’emozione del pelone al Curvone di Misano è unica, concordi?
Lì si va forte davvero e molti non chiudono il gas per niente o solo pochissimo. Però magari adesso dicono così perché siamo a Misano, ma di curve da pelone vero ce ne sono anche altre nei circuiti del mondiale. Comunque sì: il Curvone adesso è tra quelle di sicuro.
Misano era migliore prima o adesso che si gira al contrario?
Meglio o peggio non lo so. Forse così è un po’ più facile, ma magari lo dico perché sono figlio di quell’altra epoca. Di sicuro adesso fanno robe pazzesche. Mi ricordo, negli anni dell’Academy in cui si veniva spesso a girare qui, che Marco Bezzecchi, con una Yamaha R1, arrivava a gas spalancato, poi buttava la moto a destra intraversandola completamente e faceva la curva così. Roba da paura. Quindi diciamo che adesso Misano è semplicemente diversa da prima, senza stare a fare classifiche che non servono.
Citi spesso la VR46 Riders Academy e in Italia oggi non sembrano esserci campioni all’orizzonte, perché nessuno, e penso nello specifico alla federazione, copia quell’esperienza per provare a dare un futuro di successi al motociclismo italiano?
Cito spesso la VR46 perché è un pezzo importante della mia storia. Quanto alla domanda, francamente, non saprei cosa rispondere. La VR46 ha creato campioni del mondo, ha creato una buona parte dei protagonisti della MotoGP di oggi e qui a Misano l’intera prima fila in griglia sarà oggi targata VR46: rendiamoci conto che esperienza incredibile e vincente è stata quella del Ranch. Solo che esperienze così a volte sono uniche e forse pure irripetibili.
Quindi a tuo avviso non c’è speranza di assistere a una Academy 2, al di là di Vale?
E’ vero che ovunque si copia ciò che funziona, ma non è sempre facile copiare bene perché la tua casa costruita sul tuo terreno non può nascere identica sul terreno di un altro. Valentino Rossi ci ha messo tanto del suo, ma tanto davvero. Sotto tutti i punti di vista, compreso quello economico. Lo dico perché c’ero, non per sentito dire. E’ vero che un po’ lo aiutano, ma lo aiutano perché è Valentino Rossi e grazie a quello che ha fatto e alla persona che è riesce a aprire ogni porta. Per altri potrebbe non essere così. Lui ha creato l’Academy per amore di questo sport e perché, nonostante fosse figlio di un pilota, aveva ben presente la fatica che ha fatto all’inizio: ecco, l’Academy ti aiuta proprio in quel pezzo di strada lì difficilissimo dell’inizio, quando magari i gradini sono troppo alti per le gambe ancora corte di ragazzini che hanno un sogno. Aiutare il talento è una cosa grande davvero. Che mi si rida addosso, non ho problemi a farmi odiare e semmai chi mi odia può mettersi in fila, ma Valentino Rossi ha un’intelligenza degna di un Premio Nobel e l’Academy ne è stata l’ulteriore prova: perché attraverso il Ranch s’è aiutato aiutando. Sono rarissimi quelli che sanno farlo.