Questa intervista ha richiesto un paio d’anni di preparazione. È iniziata a Valencia 2021, domenica notte: Valentino Rossi si è ritirato, Fabio Quartararo ha appena vinto il suo primo titolo mondiale. Il francese festeggia in un club del centro assieme a una buona metà del paddock, tra piloti (tanti), e giornalisti (pochi). Io e Rosario ci incontriamo in mezzo alla folla, abbiamo le mascherine addosso e per capirsi bisogna parlare a mezzo centimetro dalle orecchie. Ne esce un dialogo surreale, complesso e pieno di equivoci che pare scritto per una scena de La Grande Bellezza. Rosario è un po’ incazzato e prova a farmelo sapere con una certa classe ma senza mediare, con decisione. Ha tutte le ragioni. Succede poi che ad EICMA, lo scorso anno, ci ritroviamo a parlare di belle auto e belle gare: Triolo ragiona in fretta, come è consigliato per un giornalista e risulta indispensabile ad un telecronista. Anche lui è un irregolare, cosa che forse accomuna più di ogni altra chi vive il paddock della MotoGP. Ci accordiamo per un’intervista.
Rosario Triolo è partito da un piccolo paese vicino a Messina, da minorenne, per trasferirsi a Milano e seguire un sogno complicato e distante. Triolo ha 34 anni, ma per il mestiere che fa, in Italia, è giovanissimo, lui dice “un junior”. Non lo dice, ma è uno testardo. Oggi spinge la narrazione di Moto3 e Moto2 imprimendo una firma ben leggibile, che in fin dei conti è tutto quello a cui ambisce chi racconta storie. Probabilmente se ci è riuscito è perché si è dato completamente al suo mestiere.
Rosario! Dai, partiamo. Come stai passando la pausa invernale? Sei a Messina?
“Allora, in Sicilia non ci abito, sono solo nato lì in un paesino in provincia che si chiama Novara di Sicilia. Il mio inverno è fatto di giorni di ferie che devo recuperare perché durante l’estate non ne faccio. Così a dicembre scarico le vacanze, poi da gennaio in realtà - grazie al fatto che Sky ha i diritti del WRC - si riparte”.
Hai commentato il calcio. Campionati auto di ogni genere. Quando sei arrivato in MotoGP eri pronto a farlo?
“Dipende. Se nella vita vuoi fare questo mestiere sei sempre pronto a commentare un evento. Se domani mi chiedessero di commentare la finale dei mondiali di calcio, oppure il Super Bowl, per quanto sappia pochissimo di football americano lo farei. Poi i nomi dei giocatori te li prepari dopo. Rispetto a tutti gli altri sport, però, la MotoGP ha una componente diversa: sul pass c’è scritto Motorsport is Dangerous. Così non è che non sei pronto a commentare la MotoGP, non sei preparato a certe situazioni, in cui però ti ritrovi. Quando vedi un pilota che rimane per terra per un minuto e mezzo, che poi magari non aveva niente, per quel minuto e mezzo è durissima. E non sei mai preparato. A Guido (Meda, ndr.) è successo di più, anche con persone a lui molto vicine. Per me non è stato così, ma ho comunque vissuto la peggiore delle situazioni e se succedesse di nuovo non sarei preparato”.
Pensi di aver trovato, negli anni, un tuo metodo per commentare le corse?
“Ogni anno rileggo il regolamento, perché ci sono sempre nuove postille. Poi specialmente nelle gare devi avere sempre sotto il famoso libro giallo col regolamento. Io la MotoGP la seguo da quando c’era la 500, quindi quando sono arrivato nel 2014 non era uno sport nuovo per me. La cosa veramente nuova sono state le moto da corsa, che non c’entrano assolutamente niente con moto stradali, e con la famiglia del paddock, perché per quanta gente ci sia lì dentro alla fine è un paesino e farsi degli amici non è scontato. Ho cercato, con il massimo rispetto per chi c’era già, di imparare e farmi voler bene. Anche perché dico sempre che se qualcuno dovesse parlare di me in una conversazione privata preferirei che dicesse che sono una brava persona piuttosto che un bravo giornalista”.
Questa cosa la dice anche Guido Meda.
“Io ho due fari. Il primo è questo, cioè che se una cosa va trattata in un certo modo per non ferire qualcuno preferisco non farlo, anche se quella persona è la peggiore con cui mi sono mai confrontato. Il secondo è che quando commento un evento sportivo - che è stato il mio sogno da quando ho capito di non avere le qualità per essere io il protagonista - cerco di fare in modo di non essere io al centro dell’attenzione. Vorrei solo trasmettere quello che fanno queste persone, che siano calciatori o, a maggior ragione, piloti, gente che ha deciso anche di accettare un rischio. Quando mi metto a urlare non lo faccio perché sono un pazzo psicopatico, lo faccio perché sento che quella situazione mi sta trasmettendo qualcosa di incredibile e vorrei comunicare queste sensazioni a chi ascolta. Un esempio che mi viene in mente è Jerez 2019, con la doppietta del Sic58 Squadra Corse nel circuito in cui Marco aveva vinto la sua prima gara”.
Oggi hai il tuo modo di raccontare: tormentoni, soprannomi, cose che funzionano e che la gente ricorda. Quanto è stato difficile fare tuo il linguaggio, mettere la tua firma? La tua passione per il calcio sudamericano ti ha indicato un po’ la strada?
“Partiamo dall’inizio: è vero che ho una grande passione per il calcio sudamericano, l’ultima Copa América l’ho commentata durante la pausa della MotoGP, lo facevo tra una gara e l’altra. Questo perché da piccolo, a tre anni, ho costretto mio padre a portarmi a Monza a vedere Senna. Lui per me, tutt’ora, è quanto di più vicino alla divinità esista nella storia dell’umanità. Per altro quella gara nel ’92 Senna la vinse e la vinse contro ogni pronostico perché quell’anno lì vincevano solo le Williams. Erano in superiorità schiacciante e Mansell arrivò a Monza già campione, eppure vinse lui. Dopo l’incidente di Senna però non volevo più guardare le macchine, soffrivo a pensarci”.
E poi cosa è successo?
"Un mese e mezzo dopo ci fu la famosa finale dei mondiali col Brasile, con quel celebre rigore di Baggio. E lì ho visto lo striscione dei giocatori del Brasile, c’era scritto ‘Senna aceleramos juntos’: non sapevo cosa significasse la scritta ma da lì ho cominciato a seguire il calcio brasiliano. Poi crescendo mi sono allargato, dal Corinthians - che era la squadra di Ayrton - ho cominciato a conoscere le altre squadre. Tutto sommato però sono sempre cresciuto tra macchine e moto, considera che nel mio pesino di duemila abitanti c’erano tre officine di cui una - che c’è ancora - che faceva solo macchine da corsa”.
Perché tu, a dire il vero, sei un grande appassionato di automobilismo.
“Sì, ma alla fine sono un collezionista di stupidaggini. Macchine d’epoca, libri sui motori, cose così. Tra i miei vecchi ferri la mia preferita è la Lancia Fulvia Montecarlo del 1972. Cinquant’anni fatti l’anno scorso, poi con l’estetica Gruppo 4. Tanta roba”.
Quanto avevi studiato per il tuo debutto nel motomondiale?
“La prima gara di moto che ho commentato è stata dell’Asia Talent Cup - difficilissima, perché tutte le moto erano uguali e loro avevano nomi complicatissimi - poi la Moto2. L’unica cosa che avevo preparato è stato il ‘gas!’ alla partenza che c’è ancora. Tutto il resto, come credo che debba essere, è venuto fuori senza prepararlo. È un po’ come la genesi del celeberrimo ‘tutti in piedi sul divano’ di Guido Meda: gli è uscito perché lui in telecronaca si mette davvero in posizioni assurde e quella volta era in piedi sulla sedia. Da lì gli è partito tutti in piedi, poi ha detto divano pensando alla gente davanti alla TV. Quello ti deve venire da solo. Invece la scansione del tempo, il ritmo diciamo, l’ho imparato dal calcio, anche se lo svolgimento dell’azione ha tempi completamente diversi e tu devi capire quando spingere e quando invece rallentare”.
Senti salire la tensione durante il weekend di gara?
“Assolutamente sì. E devo dire che anche l’attenzione sulla FP1 rispetto alla gara è proprio una cosa diversa. Professionalmente dovresti garantire lo stesso livello di attenzione a tutto ma umanamente è impossibile”.
Hai mai paura di dire ‘la cazzata’?
“Ecco, quella ho più paura che mi scappi nelle libere, ma non tanto una stupidaggine tecnica: lì c’è Pasini che me la fa notare e la volta dopo mi scuso e correggo. Quello che ti fa venire un po’ d’ansia è di dire una cosa quando magari intendi tutt’altro: lì vieni massacrato. E poi devo dire la verità, anche a livello fisico può essere pesante. L’anno scorso, per il trittico extraeuropeo, alla fine di un venerdì sono arrivato finito, senza voce. Ho dovuto fare tutto un lavoro su me stesso, prendere medicinali appositi".
Per esempio?
“Qualche medicina dalla Clinica Mobile, pastiglie per la gola, tè caldi, miele… una lunga serie di cose per cercare di recuperare la voce”.
Quanto tifo deve esserci, secondo te, in un racconto?
“In Italia è un paradosso: mettiamo in dubbio il fatto che la vittoria di un italiano sia più importante di quella di piloti di altre nazionalità. In tutto il resto del mondo invece i connazionali hanno sempre la priorità. È incredibile che da noi sia così, ricordo le polemiche su Federica Pellegrini per esempio: è giusto che il telecronista spinga. Penso che nel rispetto degli avversari sia giusto dare spazio agli italiani. Il che non significa che non si possa avere un rapporto migliore con uno straniero, ma è chiaro che quando Foggia lottava con Guevara - anche per il rapporto umano che abbiamo - tiravo di più per Dennis, ma poi Guevara mi ha regalato un’esclusiva. Loro sanno benissimo che è così e sono felicissimi di avere un buon rapporto con me. Penso ad Abert Arenas, quando lottava con Tony Arbolino: mi voleva bene, mi ha ringraziato lo stesso! In Spagna non si pongono neanche il problema e questo che mi fa impazzire, mi manda ai matti”.
Che consigli hai per il Rosario di 10 anni fa?
“Più che dare un consiglio preferisco condividere un’esperienza. Se vuoi fare una cosa simile a quella che ho fatto posso dirti come è andata a me, se ne è valsa la pena o meno, cose così. Sinceramente direi di continuare a ragionare con la sua testa, perché ogni rinuncia alla fine può portare ad un guadagno maggiore. Di andare dritto, superare le situazioni per cui uno pensa di aver fatto le cose sbagliate. Se uno ti dicesse: preferiresti cento milioni di euro o rivivere di nuovo la tua vita sapendo di tutte le stupidaggini che hai fatto? Io direi la seconda, anche perché forse guadagnerei pure di più”.
Dipende da quando te lo chiedono, se hai vent’anni o settanta! A proposito: se tu andassi in pensione domani cosa ti metteresti a fare? Compreresti auto?
“Sicuro. Le vecchie auto sono una mia grande passione. Ma se devo pensare alla mia pensione non credo che resterei legatissimo al lavoro. Andrò meno alle gare, magari prenderò meno aerei. Andrei alle gare ma lascerei lavorare altri, perché mi piacerebbe che i giovani avessero un po’ più spazio, e parlo come uno che è stato fortunato ad averne molto. Dirlo è banale, ma alla mia età Guido era già telecronista di Valentino Rossi, Caressa era già quello dell’Italia ai mondiali, Piccinini era già a commentare la Champions League su Canale5. Io, nonostante, l’età, sono ancora un junior. L’altro giorno ho visto Andrea Delogu in televisione: lei viene considerata un giovane talento, però Antonella Clerici alla sua età aveva fatto vent’anni di TV. Purtroppo per lei, per Andrea, è così. Ecco, a me ad un certo punto piacerebbe farmi da parte per dare spazio a chi scalpita dietro di me, anche se la vedo dura per chi ci sarà dopo: se i quarantenni attuali arriveranno a fare i senior a 55 anni, i ventenni attuali quando ci arriveranno? Mai, e un po’ mi dispiace. Una volta il direttore del Corriere della Sera aveva trent’anni, ora sessanta. Poi chissà, magari ai giovani non importerà niente, sogneranno altro: YouTube, Twitch, cose simili”.
L’anno scorso è successa questa cosa: Johann Zarco si innervosisce per una tua domanda, si toglie la cuffia e se ne va. Come lo gestisci un momento così?
“La prima cosa da dire è che è nato tutto da un fraintendimento, io gli stavo facendo un complimento: gli ho detto ‘caspita, sei un figo e vogliamo vederti come nella prima metà di stagione, non come è successo da una certa gara in poi quando hai fatto più fatica’. Tant’è che lui poi ha capito, era arrabbiato già per motivi suoi. Ora con lui è tutto a posto, anzi: è uno dei migliori, anche se magari dalla televisione non si percepisce. Johann suona il piano, racconta le barzellette, suona la chitarra, porta suo fratello alle gare e ci fa i duetti… Ad ogni modo credo di averla gestita con grande serenità, dicendo che probabilmente avevo espresso male io la domanda. Dopo, fuori, è stato più difficile, perché se vai a vedere i social ti fai il sangue amaro e magari qualcuno butta lì un’allusione per scatenare l’inferno. C’è sempre modo e modo per dire le cose. Devo dire la verità, rispetto al solito quella volta ho fatto un’eccezione. Una cosa così non l’avevo mai fatta in vita mia e non ho problemi a raccontarla”.
Beh, ti ascoltiamo volentieri.
“Ripeto: non l’avevo mai fatto in vita mia, ma per quella roba lì di Zarco c’è stata una pagina Facebook - che non è stata nemmeno subdola, per la verità - che ha fatto un post e quel post si è riempito di commenti di qualunque tipo, sia contro di me che contro Zarco perché secondo loro non aveva vinto abbastanza per comportarsi così. Sotto a quel post c’erano cose molto offensive scritte contro di me: le ho prese, sono andato in questura e ho querelato tutti. È stata l’unica volta che l’ho fatto nella vita, ma era troppo. Perché una cosa è dire ‘Triolo non è in grado di commentare una gara’ e lì dico va bene, fallo tu se sei bravo, è un’opinione e sei libero di esprimerla. Un’altra, senza arrivare agli insulti o agli auguri di morte, erano commenti del tipo ‘chissà chi ti ha messo lì’. Quello per la legge italiana è reato di diffamazione. E lo so io cosa ci ho messo per arrivare a fare questo mestiere”.
Dai, raccontacelo.
“Va bene, ma non lo faccio per vantarmi. Io sono partito da un paesino di provincia in Sicilia, un paesino che non è neanche al mare. Sono diventato pubblicista a diciannove anni anche se a diciotto avevo tutto pronto, perché l’Ordine dei Giornalisti della Sicilia non ha accettato i miei lavori da minorenne e sono tornato l’anno più tardi. Dato che la sede era a Palermo ho affidato le mie pratiche ad un giornalista di Messina, una persona che avevo conosciuto tramite il sito per il quale scrivevo, anche perché ai tempi non avevo nemmeno la patente. Insomma, ci siamo incontrati in un bar a Messina, io avevo le mie carte per fare richiesta, era la situazione ideale: la granita, la brioche davanti, il sole. Questo mi guarda e mi chiede perché voglio fare il giornalista. Gli dico che mi piace, che voglio farlo di mestiere. Lui mi chiede se mio padre è giornalista: ‘No, nessuno della mia famiglia’. Mi chiede mio padre se fa il politico. ‘No’, gli rispondo. Mi chiede se è un magistrato, e io ancora ‘no’. Così mi guarda, si prende un momento e poi mi chiede dove penso di andare. Mi ha sconsigliato anche la carriera universitaria che avevo in mente. Invece io sono partito per Milano con la mia mamma, perché mi serviva qualcuno che firmasse i documenti universitari. Ero un anno avanti con gli studi, quindi ancora minorenne. Sta di fatto che ho lasciato la famiglia a 17 anni, mi sono trasferito a Milano, ho vissuto da solo e poi, a vent’anni, per una botta di culo sono riuscito ad entrare a Sky con uno stage, ma è stata una serie di coincidenze”.
Per esempio?
“All’inizio dovevo fare un altro stage, ma poi mi è arrivata una delusione per tutta una serie di piccole cose. Così ho scritto a tutte le redazioni, tranne alla Rai che assume solo per concorso pubblico. Sono stato fortunato che Sky stesse cercando in quel periodo e una volta entrato non sono andato più via. Stavo lì dentro tutto il giorno, anche finito il turno. Guardavo gli altri. Poi di quelli che sono entrati con me, a novembre 2008, non tutti sono rimasti, anzi. Qualcuno ha fatto una carriera anche più bella, poi c’è chi ha cambiato completamente strada, cose così. Per arrivare dove sono, tra i sacrifici della famiglia e il culo che mi sono fatto io…”.
Tostissima. Da quel momento hai visto la discesa?
“Mah, non è stato facile. È vero che sei giovane, sei a Sky e hai tutto, ma è anche vero che sei il più junior dei junior. Mentre magari se parti da una realtà più piccola impari molte più cose in meno tempo, anche su come andare in onda. All’inizio io non potevo andare in onda perché ero a Sky, al massimo. Non so se sia più facile, capito? Ecco, tutto questo per dire che sentirmi dare del raccomandato per me è un insulto paragonabile anche alle cose più becere, una mancanza di rispetto incredibile. Perché poi c’è stato pure qualche scienziato, che io ho conosciuto, che ha voluto lasciare intendere che io sia stato messo lì da qualcuno, che tra l’altro è una diffamazione anche per Sky, come se loro prendessero raccomandati”.
Chiudiamo: Rosario Triolo, cosa faresti scrivere sulla tua lapide?
“Adesso non vi scoccio più se non quando vorrete voi”.