Li ha svenduti al “Compro Oro” dello Studio Ovale, John Elkann, i famosi “gioielli di famiglia”? La Juventus, squadra più titolata d’Italia e brand globale, che insieme a Ferrari fu uno dei preziosi più brillanti custoditi in quello scrigno tirato su a miliardi e appartenenza (seppur, esclusiva, elitaria, aristocratica) dall’Avvocato Gianni Agnelli, è finita a fare da comparsa muta sul palcoscenico di Donald Trump. Tudor, Vlahovic, ma anche gli statunitensi Weah e McKennie, disposti in fila tra quel ciuffo sprofondato in poltrona e le sfarzose tende da satrapo con le quali Trump ha sobriamente arredato il luogo più solenne della democrazia statunitense. Lo spettacolo agghiacciante, troppo anche per un siparietto elettorale anni Novanta su Telemarket, non resterà certo negli annali del calcio, ma in quelli della pubblicità gratuita a Stellantis e agli affari a stelle e strisce di Elkann, quello sì. E lo si capisce anche da come, insieme al presidente della Fifa Gianni Infantino, posa giulivo brandendo la casacca bianconera dedicata a The Donald, presidente numero 47. Quel sorriso, quel maledetto sorriso.

Che il patron di Stellantis non sfruttasse l’occasione del Mondiale per club – fino ad ora un flop sportivo e di pubblico – per scucire un’altra photo opportunity al presidente statunitense era assai improbabile. D’altronde Elkann aveva già fatto visita a Trump subito dopo l’annuncio dei dazi, preoccupato dai proclami e dal possibile contraccolpo sul mercato dell’automotive. Lo aveva anche affiancato circa un mese fa in Arabia Saudita, quando aveva fatto da apripista a quel capannello di imprenditori catapultatisi al cospetto del principe ereditario Mohammed Bin Salman. Insomma, la visita della Juventus, puzza di teatrino al servizio del ritorno economico da lontano, una moina studiata ad arte per strappare consensi e appalti. Nulla a che vedere con il calcio, sport che peraltro al tycoon non è mai interessato più di tanto.

Ma per capire tutto questo basta guardare le facce dei giocatori, ridotti sì a manichini ma evidentemente incapaci di mostrare entusiasmo di fronte a una scenata che neanche Alessandro Orlando con i suoi tappeti imperiali di Persia era capace di partorire. Alcune foto circolate subito dopo l’incontro – non pubblicate né dalla Casa Bianca né dai profili della Juventus, forse per timore di incorrere in una shitstorm assicurata – mostravano l’allenatore Igor Tudor con gli occhi al cielo, Weston McKennie e Timothy Weah — proprio loro, due americani di origine africana — col volto contratto in smorfie a metà fra l’imbarazzo e il disgusto, mentre la loro maglia bianconera veniva sventolata come gadget aziendale.
C’è poi anche un tema di tempismo, dato che proprio nelle stesse ore in cui Elkann gongolava con Trump, questi teneva – e tiene ancora – per le palle la politica internazionale, con dichiarazioni ambigue e ormai infarcite di scherno e insofferenza verso i giornalisti riguardo a una possibile entrata in campo militare di Washington a sostegno di Israele contro l’Iran. Insomma, nello spazio di poche ore la fotografia della Juventus riunita come un gruppo di boyscout nello Studio Ovale potrebbe diventare la prova provata della vicinanza a un presidente in guerra, invischiato direttamente nella questione Mediorientale; la stessa che vede, al suo interno, attacchi ai civili in fila per il pane, bombardamenti ai quartieri residenziali, oltre ad accuse di genocidio e crimini di guerra. Non di certo un bello spot per un brand che da anni ambisce ad alimentare un'immagine sempre più globale. La foto, caro Elkann, rischia di invecchiare male, malissimo. Per i gioielli di famiglia invece, non c’è più speranza.