Giusto un paio di premesse: né Fabio Caressa né Beppe Bergomi hanno bisogno di una qualsivoglia – per quanto convinta – “difesa d’ufficio”. Hanno le spalle larghe, ne hanno viste e raccontate tante, per cui quanto accaduto ieri al fischio finale di Inter-Barcellona, semifinale di Champions League, in onda anche in chiaro su Tv8, per loro non è stata affatto una sorpresa. Seconda necessaria premessa: il tifoso medio italiano (figura notoriamente pacificata ed equilibrata) quando è necessario si aggrappa alla “deontologia”, a un concetto di aureo equilibrio che neanche la BBC degli anni ’50, e a quella sobrietà che probabilmente, nella vita di tutti i giorni, permea ogni suo gesto.

Ieri, a quanto pare, questo tipo di tifoso – commentatore social, fervente anti-interista; ma anche anti-mainstream, perché no? – si è sentito oltraggiato dalla passione “di parte” di Caressa e Bergomi. E sì, meglio l’equilibrato commento – presumiamo – della tv catalana. Loro sì avranno offerto arguti spunti bipartisan, ignoranti dell’intermittente sdegno, in panchina, del loro condottiero, Hans-Dieter Flick, o della frustrata sofferenza dell’astrale Lamine Jamal. Minimamente non perturbati – presumiamo, di nuovo – dalle tante scelte difficili operate dalla terna arbitrale e dagli assistenti al VAR.

Un’indignazione quasi comica, quella dei social. Che dribbla un concetto fondamentale: se chi fa una telecronaca di alto livello è quasi sempre un giornalista (Caressa), una telecronaca non è, tuttavia, il classico “esercizio giornalistico”. Non è attività fondata sull’analisi, sul poter rivedere e raffinare un ragionamento strutturato e ignifugo. O meglio, l’analisi va fatta in diretta, a caldo. La telecronaca di un evento sportivo, in un Paese in cui quello sport è sport nazionale, interpreta, il più possibile correttamente, l’andamento di una partita innanzitutto vissuta. Non solo da chi la racconta, ma soprattutto dal pubblico sugli spalti e da quello a casa. Caressa e Bergomi ci hanno così riportati sia a quel Mondiale 2006 che unì l’Italia (perché all’epoca, fu celebrata la Nazionale che sconfisse i galletti francesi di “testone” Zidane), ma anche a un calcio pre-social in cui prima Nando Martellini e poi Bruno Pizzul hanno sempre apertamente sostenuto le imprese delle squadre italiane in coppa. Telecronache diverse da quelle odierne, in cui spesso mancavano le seconde voci e altrettanto frequentemente sbucavano, quasi dal nulla, alcuni secondi di pietrificato e teso silenzio (oggi sarebbe un crimine lasciare così tanto “vuoto”).

Telecronache pre-social che si reggevano su fondamenta mica male: i media – mediamente; scusate il gioco di parole – erano più autorevoli e il pubblico, con essi, aveva un rapporto infinitamente meno dinamico e “alla pari”. Secondo: chi tifava “contro” già c’era, alla grande, ma viveva questa libertà come qualcosa da tenersi per sé o, al massimo, condividere al bar la mattina seguente. Anche chi tifava contro sapeva, in cuor proprio, che fosse giusto che un Martellini o un Pizzul sostenessero, anche platealmente, la causa della squadra italiana sopravvissuta in coppa. Oggi no. Oggi la frustrazione fa novanta. L’Inter firma un passaggio del turno incredibile, da coronariche compromesse a vita, e allora a cosa ci si può attaccare, prima ancora che Marciniak fischi la fine, per smitizzare (o meglio, macchiare) l’impresa? Al sostegno quasi lirico, consapevolmente ingenuo (passatemi l’ossimoro), di due voci che hanno interpretato – folli loro! – la partita di una squadra di club come fosse stata la partita di una nazione intera. Come peraltro fanno all’estero, più a sud che a nord, concediamolo, ma questo deriva solo dal fatto che in Argentina o in Spagna il calcio è vissuto in modo diverso rispetto a come lo si vive in Svezia o in Olanda. Nessun reato, dai, non scherziamo. Basterebbe, ogni tanto, farsi piccoli rispetto all’evento che va in scena, non pensare che il proprio commento, da pancia piena di fagioli e birra, possa davvero ambire a produrre non un legittimo rutto, ma una ponderata e sofferta verità.
