Ad Austin, Texas, il Circuito delle Americhe si preparava a una domenica diversa dal solito, figlia della stranezza di una pole mancata al venerdì, figlia di track limits che hanno costretto Max Verstappen a partire dalla sesta casella della griglia di partenza. E, una domenica diversa, effettivamente, lo è stata. Sono tornati ad aleggiare però sul circus i soliti grandi numeri, quei numeri a cui ci hanno abituato i campioni del passato, a cui – nel corso di questi ultimi anni – ci ha abituato il giovane Max Verstappen. Lui che, anche dalla sesta casella di partenza, sembra non averne mai abbastanza, e ottiene la cinquantesima vittoria in carriera, a soli 26 anni. Lui che possiede una fame di vincere che non termina mai, che non lascia nulla agli avversari, ma una fame che questa volta sembrava nascondere un nervosismo visto in poche occasioni quest'anno, percepito anche nei team radio con il suo ingegnere di pista, Gianpiero Lambiase. Non siamo di certo nuovi a questo tipo di interazioni tra i due, ma domenica qualcosa è cambiato: “Gap 2.8, stesso passo di Hamilton” gli riferisce Lambiase, “Non parlarmi quando sto frenando!” risponde inferocito Verstappen.
Diverso anche il gap con la macchina che lo seguiva (e non una macchina qualsiasi, la Mercedes numero 44 di Lewis Hamilton), che non si trasformava – e non si è trasformato fino alla fine - nel divario di sempre. Diverso il numero di giri che sono serviti a Max per prendersi la leadership della gara, 28. Ma lo è stato davvero, tutto diverso? Perché quel numero a metà tra 0 e 100, che lo avvicina ad Alain Prost (51) e Sebastian Vettel (53), è quello che più ricordiamo, di questa domenica texana, certo alternativa, ma – in fondo – pur sempre olandese. Perchè c’è una cosa che rimane sempre la stessa e cioè che Max Verstappen, a casa, torna sempre con il trofeo del vincitore.
Dal gradino più alto, sorride a Geri Halliwell, orgogliosa di un ragazzo che ormai fa parte della famiglia, che da qualche anno a questa parte sta portando sul tetto del mondo la Red Bull, sotto la guida del marito Christian Horner. Max Verstappen sorride, a prescindere dai cori e i fischi che, nella loro triste normalità quando di lui si tratta, sovrastano l’inno olandese, invocando il nome del compagno di squadra, Checo Perez. Sorride ai fischi che lo accompagnano durante la consegna del trofeo. Sorride.
Si dice spesso, di Max Verstappen, che non dimostri emozioni, si dice che non gioisca abbastanza dei suoi successi, che non si commuova davanti agli stessi, quelli particolarmente unici. Si dice tanto. Probabilmente però, sono proprio quei team radio in un momento di difficoltà, che parlano per lui, come a dire che non servono gesti plateali, ma solo una grande voglia di fare bene, perfettamente, anche quando la perfezione sembra mancare. Quella voglia di fare bene che non si vede, ma che c’è. Quella che si scontra con i freni che non funzionano correttamente, “questi freni fanno schifo rispetto a quelli di ieri”, o con il posteriore dell’auto che - a tratti - perdeva.
Sono cinquanta vittorie nella maniera più sofferta. Sono cinquanta, dopo un sorpasso, tanto costruito alla perfezione quanto al limite, su Charles Leclerc. Dopo una gara che ci ha regalato lotta, come quella tra i britannici, Lando Norris e Sir Lewis Hamilton, per il secondo gradino del podio. Sono cinquanta, prima che la FIA comunicasse la doppia squalifica dello stesso Hamilton e del pilota monegasco, per un’infrazione riscontrata sulle rispettive monoposto.
Perché c’è della soddisfazione nel vincere sproporzionatamente rispetto agli avversari, ma forse ce n’è altrettanta nelle vittorie meno semplici, dove il pilota si affida ancora di più alla sua squadra, a strategie da cui inequivocabilmente dipende il risultato finale, a chiamate che ti portano – o ti portano via – un’altra pietra miliare della tua carriera. Che, se non fosse arrivata, sarebbe stato per la prossima volta. Ma è arrivata, e sono cinquanta. E a cinquanta, di certo, non si fermeranno.