Quando correva, pur di non rinunciare alla gara, chiese espressamente che gli tagliassero un dito per poter scendere in pista e anche dopo che Troy Bayliss ha smesso di correre in moto non s’è fatto mancare “capatine” continue in ospedale. Qualche anno fa un gran botto in bici, poi ancora un’anca messa fuori uso e ora il buon vecchio Troy “c’è cascato” di nuovo. A raccontarlo è stato lui stesso, pubblicando su Instagram una foto a cui non servono troppe didascalie. Problemi a un polmone, clavicola e sette costole fratturate è il bilancio, anche se non è chiaro se e come Bayliss sia riuscito a conciarsi così questa volta. La solita bici? Una moto? Probabilmente sarà lui stesso a raccontarlo, visto che il primissimo aggiornamento per tutti i suoi followers è arrivato quando ancora si trovava sulla barella dei soccorritori. E con tanto di sangue ovunque, ossigeno al naso e sensori per monitorare i parametri vitali ancora tutti attaccati.

Niente che non sia ordinaria amministrazione per uno che ha fatto il pilota da corsa e che è stato campione con le motociclette in quegli anni lì in cui “vivere o morire” non era solo un modo di dire. Tanto che la riflessione, al di là della curiosità per ciò che è successo a Bayliss, diventa quasi un’altra: ma davvero i piloti provano gusto pure quando gli succedono cose così? Cioè, non gusto per ciò che succede, ma gusto a raccontarlo una volta diventato chiaro che la pelle, seppure lacerata, l’hanno portata a casa di nuovo. Ferite e fratture come medaglie, anche se noi comuni mortali non capiremo mai fino in fondo, visto che nei commenti al post pubblicato dall’ex campionissimo della Ducati non sono mancate le critiche proprio per l’immagine pubblicata (oltre ai tantissimi messaggi di solidarietà degli amici e pure dei rivali di una vita). No, loro, i piloti, quelle immagini non le trovano affatto crude o scioccanti e, anzi, sono pezzi di storia personale da raccontare assolutamente. Come se la carne viva, le ossa che si rompono e il sangue che esce diventassero il simbolo di una appartenenza. Che si fa ancora più evidente e più forte quando da piloti si diventa ex piloti.
Basta parlare con uno qualsiasi di quelli che ormai hanno smesso da un po’ per accorgersi che loro, gli ex piloti, mai e poi mai tralascerebbero, nella sintesi delle loro carriere, l’elenco esatto di tutto quello che si sono rotti. Come se i segni che portano, gli acciacchi che dei botti sono conseguenza fossero la voce per esternare un grido: “io sarò sempre un pilota”. Certo, non è che vivono sperando che gli accada ancora, ma quando gli accade lo raccontano velocemente, un po’ per rassicurare tutti e evitare fake news, ma un po’ anche per rassicurare loro stessi. Ma perché i piloti sembrano tenerci così tanto a mostrarsi massacrati subito dopo essersi massacrati? Ecco, la domanda che ha stimolato la riflessione è stata esattamente questa e è arrivata così, nella più classica chiacchierata del mattino tra colleghi.

Solo che poi, un po’ per l’estate che lascia un minimo di tempo libero in più, un po’ perché con le moto ferme e i piloti in vacanza non c’è da stare continuamente dietro a news che si inseguono a ritmi forsennati, quella riflessione s’è fatta pure ricordo. Di cosa? Di un chirurgo in pensione (conosciuto davvero) che una volta, in uno sbotto di confidenza e quasi vergognandosi, rispose alla domanda “come è stare in pensione?” con un racconto che vale la foto splatter di Bayliss. Raccontò, infatti, che dopo il pensionamento, in accordo con il suo macellaio di fiducia e il mattatoio locale, gli era capitato di farsi lasciare da parte la carcassa ancora intera e non ripulita per la vendita della carne di qualche povera bestia macellata e poi, una volta a casa, la operava come se fosse ancora viva, simulando gli interventi chirurgici che per una vita aveva fatto sui suoi pazienti.
Era il modo, diceva, per disintossicarsi piano piano e senza fare male a nessuno (quegli animali erano comunque già morti) da ciò che aveva rappresentato per decenni e decenni la sostanza dei suoi giorni. Splatter? Sì, sicuramente sì e pure un po’ pulp, ma pensandoci oltre lo shock forse era solo un grido: “io sono ancora un chirurgo”. Come se quella carne da rivoltare con pinze e bisturi anche dopo la pensione, così come il sangue vero e l’elenco delle ferite e delle fratture che non smette di allungarsi per quei piloti che non sono più piloti, simboleggiassero l’umana necessità che non è solo degli ex piloti o di un qualche ex chirurgo, ma di tutti: sapere che il proprio posto nel mondo è lo stesso di sempre, anche quando lo si occupa diversamente.