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Tutto quello che mi ha insegnato la Dakar 2025: il freddo, la sabbia, il deserto che ti spoglia e una paurosa scuola di accettazione | EP8

Irene Saderini

12 gennaio 2025

Irene Saderini ci racconta, per l'ultima volta, la Dakar 2025 dalla cabina di un camion. Scendere dal numero #903 dopo il quarto stage significa lasciare qualcosa di più di una gara. Significa che ti sei preparato tanto per godere poco, che hai un nuovo irrisolto con cui fare i conti, che tornare alla normalità è più faticoso del vuoto freddo e ostile di cui è fatto il deserto saudita

di Irene Saderini Irene Saderini

Di solito scendere in garage e prendere la mia macchina tedesca con il V6 centrale posteriore mi rende felice. Spalettare come solo lei sa fare tra le curve del Lago di Como con il PDK mi centra sempre i chakra. Ma stavolta no: una vasca calda e due docce dopo nel bagno di casa e sulla mia pelle c’è ancora la sabbia, non se ne andrà così presto. 

È come se fosse tutto strano il pianeta qui fuori: le strade sono silenziose, il letto è comodo, non fa freddo. Cammino per strada e mi viene da chiedere: ma chi siete?

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Era solo l’altro ieri che salivo sul camion; da quando è sceso l’elicottero è stato tutto un rientro in fretta e furia, con il casco in mano, sempre di corsa ma verso l’aeroporto. E così ti trovi al finestrino a guardare la pista che scorre veloce sotto di te, ma sei seduta su un aereo nella fila 5F e nelle cuffie hai Damien Rice che si lagna anziché il frastuono, giusto, del camion. A quest’ora saranno già alla terza speciale, chissà se farà freddo, stanotte di nuovo senza assistenza: ce la faranno.

Ero in volo con altri due disgraziati rimasti senza motore allo Stage 4, abbiamo dormito qualche ora con addosso ancora i sottotuta e ci siamo messi in viaggio su un volo intercontinentale senza una doccia: siamo arrivati prima a Doha e poi a Milano così, da gara, con il passaporto in tasca.

Irene Saderini Dakar 2025
Irene Saderini alla Dakar 2025.

Lo stage 4 è stato duro anche per le assistenze: il rimorchio con le nostre borse, tende, sacchi a pelo alle 3.30 del mattino era ancora lontano dal bivacco. Quella notte ho dormito con la tuta da gara addosso e un paio di etti di sabbia, sul sedile posteriore di un Terrano acceso per avere il riscaldamento. Fuori, le tende avevano la brina. Anche questo C’est la Dakar.

In quelle ultime 24 ore in Arabia Saudita ho visto il leggendario elicottero Mike2 che atterrava, ahimè, per una mia chiamata, e poco dopo averlo visto andare via ho realizzato di dover finire quello che avevo iniziato all’alba: 622 km residui della tappa a 35-40 km/h perché il camion aveva troppi problemi per proseguire a una velocità normale, non ultimo quello di poter prendere fuoco per via dello scarico rotto. L’unica opzione era andare avanti e uscire almeno dalla valle dove ci trovavamo, con l’intesa di controllare costantemente se ci fosse fumo sotto di noi e di stare pronti a sganciarsi con gli estintori a portata di mano. Il destino dei camion che non camminano più da soli alla Dakar è che rimangono lì, ruderi nel deserto: ce ne sono un paio tra le dune dell’Empty Quarter da anni, uno è rimasto ribaltato. Per chi ha sofferto di mania del controllo come me, una gara come la Dakar ti siede in una stanza e ti incatena lì, ti mette in mano l’enorme realtà dal peso specifico del piombo del “non ci puoi fare niente”. È una scuola di accettazione all’ennesima potenza, una sofferenza indicibile se sei nata Ariete.

Finire la Dakar non era per me, non ora.

Ripeterlo - per altro - fa sempre male uguale. Fa niente se il camion sembrava il mezzo più affidabile di tutti per arrivare in fondo, fa niente se hai scelto la categoria della sottocategoria più conservativa: tu, oggi, questa gara non la finisci, tu vai a casa. Ed è questo che ti insegna una volta per tutte la Dakar: a lasciare andare qualcosa che volevi moltissimo, ma che non è per te.

Così come per le persone che non puoi trattenere e per le situazioni della vita: non puoi fare altro che lasciare andare. E una volta di più mi rendo conto che il rally più duro del mondo è davvero la parabola dell’esistenza e che, anche nel ritiro, aveva qualcosa da dire.

Ogni volta che torni dal deserto avverti un senso di spaesamento per qualche giorno, quando torno dal Sahara sono sempre certa che sia Mal d’Africa.

Ma tornare dalla Dakar è ancora un’altra cosa. Avevano ragione i dakariani navigati quando mi avvertivano: è un’esperienza che ti cambia.

È vero.

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Io non so se sono più io, o meglio: sono una versione aggiornata di me, fatta di tempeste di sabbia che hanno scavato dentro da qualche parte, di docce gelate che hanno messo a posto le priorità, di sveglie nel cuore della notte che mi hanno obbligata ad accompagnare i miei pernsieri, di stelle giganti che esistono solo nel Qui e Ora, di odore di benzene, di tanto rumore che i tappi non bastano.

Sono sempre io, ma dalle mani sporche di sabbia mi scivola via tutto quello che non è destinato a rimanere, tutto quello che non è per me.

Avevano ragione i dakariani: il deserto ti spoglia.

L’altra sera sono arrivata al bivacco in un ritardo mostruoso, ma ci ho trovato una realtà in fermento che non mi aspettavo: parabrezza rotti, macchine che hanno cappottato e si sono trascinate fin lì con quello che restava insieme. Antigelo verdognoli spalmati sulle plastiche e liquidi dei radiatori dappertutto. Non è che ti faccia sentire meglio vedere gli altri in difficoltà, ma sicuramente ti sentì un po’ meno sfortunata.

Una delle scoperte belle di questa Dakar è aver rispolverato quel senso di appartenenza che non ricordavo più, quello che anche se sono le tre e hai freddo e vorresti solo mangiare qualcosa, vedi un amico che ti chiede una mano, molli tutto e gliela dai.

È ricevere gli abbracci sinceri di chi dispiaciuto ti saluta, chiude la tuta e prosegue sapendo che tu non timbri il prossimo CP, è lasciare la tua tenda a chi resta, i ricambi a quelli che non sono più tuoi avversari, il cuscino (per le piaghe sul culo) ai ragazzi della Malle Moto.

Siamo tutti fratelli, delle volte il nome di chi ti sta dando una mano neanche lo sai ma è tuo fratello e lo sarà anche nel prossimo deserto, perché ce lo ricorderemo.

È un tipo di memoria che abbiamo già dentro quando veniamo al mondo e non ha bisogno di essere insegnata, non ha calendari, non va programmata. È così, da quando ci muoviamo su questo pianeta senza curarci di confini da difendere, ma semplicemente prendendoci cura dei nostri simili. Forse alcuni politici dovrebbero semplicemente venire a fare la Dakar e smettere di rompere le palle a chi aiuta altri esseri umani: imparerebbero che nessuno perde alla Dakar, ma che finché ci siamo tutti, si arriva alla fine insieme.

Non ho voglia di tornare a casa e guardare la fine della gara in TV.

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Il camion.

Era bello essere oggi al confine con lo Yemen, domani al Tropico del Cancro, nel canyon di lava dei vulcani e poi nell’Empty Quarter.

È un senso di libertà che non so spiegare. In certi momenti il paesaggio sembrava Lanzarote, e mi faceva sentire un po’ più a casa con i pensieri alla chat delle amiche di quell’isola magica, che è un po’ casa mia. Stamattina mi mancava veder correre i cammelli, liberi, vedere quelle farfalle bianche giganti tra i rovi secchi. Trovare le zucche del deserto, emblema di come una cosa bella possa resistere in mezzo al niente con un goccio d’acqua. Mi manca trovarmi a parlare di sospensioni davanti al fuoco con perfetti sconosciuti.

Mi manca perfino il rumore fastidioso del generatore: di notte quando avevo molto freddo immaginavo che fosse una ventola e che quel rumore generasse aria calda. Avevo molto freddo lo stesso.

A guardarla bene è stata tutta una bella scoperta questa Dakar. Anche ritrovare alcune colleghe inglesi dei tempi della MotoGP, inaspettatamente entusiaste per il mio adesivo di competitor. Anni fa credo che ci saremmo incenerite con lo sguardo, ma qualcosa deve essere cambiato, o magari sono diversa io che mi trovo commossa per aver ricevuto una cosa piccola come degli elastici per i capelli: li perdevo sempre e passavo le giornate a chiedere alle ragazze della MotoGP elastici neri sottili per farmi la treccia.

Quelli che ho ricevuto prima del Prologo a Bisha dalle mie ex colleghe non li perderò più, ne sono sicura. Le cose grandi possono ucciderti, ma sicuramente i piccoli gesti ti tengono in vita. Mi rendo conto che da fuori si possa sembrare degli invasati che vanno a correre nel deserto, eppure c’è qualcosa in tutto questo che ti fa venire voglia di vivere. Di più.

“Se devi andare, vai” è la forma di bene più alta che esiste, e sarò curiosa nei prossimi mesi di scoprire quanto me ne voglio.

Ricordateci felici, mentre spariamo monossido di carbonio e idrocarburi nel deserto consumando come delle betoniere (il 76% per cento dell’inquinamento atmosferico è causato dagli allevamenti intensivi e dall’’agricoltura industriale, quindi se volete salvare il pianeta non rompete le palle ai motori potenti, ma cambiate abitudini alimentari o scegliete meglio dove fare la spesa. Andava detto). Come per tutte le aspiranti Miss, già solo aver indossato la fascia del concorso sancisce quanto sia stato bello scrivere un pezzo di storia e anche solo arrivare alla Salsomaggiore Terme del deserto Saudita. È ora di appendere la fascia in garage.

Signore e Signori, per il numero #903 Miss Italia finisce qui.

AMEN.

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