L’ufficio di Alessio Salucci in circuito è dentro un camion. C’è un bel tavolo tutto pulito, abbastanza grande per giocarci a ping pong e con sedie a sufficienza per convocare una riunione del G8. Lui arriva con il cappello del team logato Monster Energy, un Daytona d’acciaio al polso e un sorriso largo. Quest’uomo è la prova tangibile del fatto che tutte le storie sul sacrificio che ci raccontano da bambini non sono necessariamente vere. Uccio ha vissuto la sua vita cestinando gli obblighi di un’ esistenza come tante per dedicarsi al suo sogno e all’amicizia, che è la forma d’amore più scomoda perché in mezzo non c’è il sangue e manco il sudore, c’è solo che te la devi sentire. Ricorda vagamente Oscar Zeta Acosta, altrimenti noto come Dr. Gonzo, l’avvocato samoano di Hunter S. Thompson in Paura e Disgusto a Las Vegas. A una prima occhiata per lo stile, la combo baffo e capello con cui Benicio del Toro interpreta l’avvocato nel film, mentre a un’analisi più attenta capisci che anche Alessio Salucci ha avuto per tanti anni quel ruolo lì, quello della spalla risolutrice, l’amico che ti tiene compagnia sistemando i guai della tua vita ogni volta che non è impegnato a fare dell’altro o a divertirsi con te.

Oggi Uccio guida il VR46 Racing Team in MotoGP lavorando a stretto contatto con Ducati. Un lavoro vero, complicato. Un lavoro che impone una conoscienza profonda delle dinamiche del paddock, dei team, delle aziende. Lui ha dimostrato di saperlo fare molto bene e te ne accorgi quando parla della sua squadra, del rapporto con Ducati, delle differenze tra una GP25 e una GP24. Alessio Salucci parla sempre ridendo e con leggerezza anche se nel frattempo tratta argomenti seri. “Sono stato molto fortunato perché ho sempre fatto quello che mi piaceva”, risponde lui, che come sempre parla svelto, quando gli chiediamo dei suoi 46 anni.

“Io e Vale da piccoli eravamo due appassionati di moto, di macchine e di motorsport in generale. Quindi lui ha iniziato a correre, ed è diventato quello che è diventato, io sono sempre stato al suo fianco… abbiamo passato dei momenti bellissimi e altri difficili. Di base sono veramente contento, poi nell’ultima parte della sua carriera ho cominciato a seguire anche Moto3 e Moto2. Lì mi sono fatto anche più esperienza e adesso seguo il team MotoGP. Quindi dai, una vita fantastica. Bella. Nel posto dove mi piace più stare. Quest’anno sono 27 stagioni, o 28: tantissime, però tutte le volte che entro nel paddock sento le farfalle”.
C’è stato un momento preciso in cui hai capito che Valentino andava più di te con la moto?
“Subito. Immediatamente. Non ci voleva tanto a capirlo. Andava più forte di me ma anche di tanti altri (ride, ndr). Io andavo pianissimo. Andavo normale, come due milioni di bambini in Italia. Invece c’era un gruppetto veramente veloce, di quella generazione lì. Che poi sono diventati Melandri, Dovizioso… si è capito poi che erano veloci! Ma io non correvo neanche a quei livelli lì, facevo le garette organizzate dalla pista il mercoledì sera perché ero un appassionato”.
Ci vai ancora in moto?
“Ci vado al mare in moto. Piano, con calma. Mi piace guidare, alla fine la moto l’ho sempre guidata da quando sono bambino, piccolino, la passione di guidare ce l’ho. Però mi piace andare piano, per piacere. Non in maniera racing”.

Ogni tanto ci chiediamo se magari Valentino Rossi deciderà di prendere un po’ più in mano il team. Tu come la vedi: è possibile?
“Magari. Per me lui per il team deve fare quello che sta facendo ora. Non si può pensare di mettere Valentino qui a… come dici te, a lavorare. A parte che facciamo due riunioni a settimana e lui è veramente coinvolto in questo progetto come è coinvolto nell’Academy, anche perché altrimenti non lo farebbe, ecco. È molto coinvolto, gli piace. È un progetto che è partito nel 2014 ed è sempre andato in crescita, però lo vedo più nella posizione di adesso, di gestione: io comunque parlo con lui perché c’è tanto di suo qui, è suo il team e anche se non è sempre presente quest’anno fa un programma di sei, sette gare che comunque sono più di quelle fatte l’anno scorso, anche perché corre meno gare lui. Resta molto impegnato con le macchine, quindi a lavorare a tempo pieno qui dentro non lo vedo. Quando viene alle gare però lavora sei ore al giorno, è sempre alla telemetria a cercare di dare consigli, a fare le riunioni. Vedi proprio che è appassionato, che gli piace. E poi un po’ sicuramente questo mondo un po’ gli manca, il mondo delle due ruote è dove è nato e cresciuto. Lo vedi che quando torna nel paddock ride, guarda le cose che sono cambiate, mi chiede… è sempre un po’ come tornare a casa sua. Perché alla fine, la MotoGP… si può dire un po’ che è casa sua”.
Assolutamente. Senti, adesso tu gestisci un team MotoGP ma per tanti anni tu e Valentino siete stati dall’altra parte. Ti capita mai di pensare che magari avete esagerato qualche volta?
“Sempre. Sempre. Ma te non hai capito quante volte! E non lo dico perché sei qui, ma quante volte penso ai vari Davide Brivio, Carlo Fiorani, Lin Jarvis… tutte le persone con cui abbiamo lavorato. Perché noi eravamo, adesso mi viene da dirlo, abbastanza dei rompiscatole. Però guarda, secondo me te lo possono dire anche loro: abbiamo sempre rotto le scatole in maniera positiva e costruttiva, poi quando un pilota vince sei, sette gare all’anno può anche rompere un po’ le scatole (ride, ndr)! Detto questo sì, rivaluto tante cose e questo mi aiuta molto nel mio lavoro. Franco e Diggia, i piloti che sono qua, sono sempre pronti a fare mille richieste. Allora mi rivedo quando ero dall’altra parte, il che mi aiuta a capire la richiesta nel momento in cui me la fanno e questo mi motiva a cercare di accontentarli. E questo è il mix della mia doppia vita sportiva in questi8 25 anni di mondiale. Se riesci a mescolare il buono di prima e quello di adesso può venire fuori qualcosa di positivo”.
È quello che dicono i vostri piloti: “Qui il team è costruito attorno al pilota”.
“Noi siamo sempre qua per loro, il nostro non è un team commerciale. Siamo qua per dare il centodieci per cento per loro, per provare a vincere. Poi certo, è un progetto molto ambizioso. Non voglio essere ripetitivo, però noi abbiamo preso questi piloti dell’Academy quando erano giovani, li abbiamo fatti crescere… è tosta, non siamo andati a prendere il top rider. È un tipo di lavoro diverso, ve lo assicuro. Per me è molto più eccitante ed emozionante, poi li vedi crescere: li prendi che c’hanno dodici, tredici anni e li porti qua… cavolo, è una roba bella. E non è scontata la cosa. È gustoso, è difficile e gustoso. Però a volte diventa più difficoltoso, magari non arrivano i risultati. Non è sempre facile, però va bene”.

Quest’anno siete il team Factory Supported Ducati. (Al posto del Team Prima Pramac, ndr). Ti sei accorto della differenza rispetto all’anno scorso?
“Assolutamente. Si condivide tutto con Ducati, dalla comunicazione alla parte tecnica. Abbiamo tutti i loro ingegneri nel box, abbiamo i dati in maniera più veloce, abbiamo sempre un sacco di cose nuove. Voglio dire, abbiamo più pezzi nuovi come numero: della stessa cosa nuova ne abbiamo due o tre copie. Io sono cresciuto più in questo ambiente qua rispetto a com’era prima, grazie a Vale sono sempre stato in team ufficiali”.
Sei l’unico in questo paddock ad avere una GP24 e una GP25 nel box: mi spieghi un po’ le differenze?
“Sono due moto della Madonna. Sono due moto bellissime con caratteristiche leggermente diverse. La 25 va molto bene per delle cose e peggio per delle altre, la 24 viceversa. Sicuramente la 24 è arrivata a destinazione, invece la 25 ha un margine di sviluppo importante. Purtroppo adesso i test sono pochi e tra una roba e l’altra è difficile portarla subito al cento per cento, ma… è una grandissima moto anche la 25. Abbiamo visto anche che Marquez… non ci va pianissimo (ride, ndr)”.
A proposito: come lo vedi Marc Marquez?
“Cosa vuoi dire, è un pilota fortissimo! Al momento è il più forte, bisogna cercare di guardare quello che fa, imparare da lui e provare a prenderlo”.
Un’altra cosa di cui si parla tantissimo è il rapporto tra Jorge Martín e Aprilia. Tu credi che la MotoGP finirà come la Formula 1, in cui Briatore scambia i piloti come se niente fosse?
“Io spero vivamente di no. Ho visto che Briatore fa i contratti ogni tre gare, secondo me bisogna stare attenti a fare cose così. Poi per carità. Io comunque spero di no, a parte cose eclatanti… se un manager è bravo a mettere delle opzioni che sono scritte nero su bianco, poi il contratto va rispettato. E non lo dico di Martín, dico in generale. Ma se il contratto dice una cosa bisognerebbe cercare di rispettarla, altrimenti qua viene fuori il far west”.
Viene in mente la storia tra Valentino Rossi e Ducati: magari non c’era la clausola e non c’erano le condizioni, però in quel periodo forse avrebbe potuto pensare anche lui di chiuderla prima.
“Guarda. Io ti dico, e sono sincero come sempre… dopo tre o quattro gare del 2012 di rompere il contratto non me l’ha mai detto, però che aveva voglia di stare a casa sì. Ma per dieci minuti. Poi si rimboccava le maniche, arrivava alle gare dopo già qualche mondiale vinto e si faceva il mazzo per stare davanti a tutti gli altri, minimo quelli con la Ducati. Quando veniva qua dava sempre il centodieci per cento. Secondo me bisogna fare così. È quello che a noi hanno sempre insegnato, anche i nostri genitori. Rispettarle, le cose. Se hai firmato per due anni quella volta, poi bisogna dare del gas, stare zitti e via. Sperando che finisca presto”.
Cos’è per te l’emozione di un podio?
“È bello perché i podi nel weekend di gara si costruiscono assieme ai piloti, che siano belli o brutti. Poi quando sono brutti… eh. Ma quando sono belli, che li hai vissuti assieme dalla FP1, che vedi il pilota che ascolta i consigli e inizi a respirare il profumo di un buon risultato che quando arriva vivi un’esplosione di emozioni. E le prime persone a cui penso sono i ragazzi del team, perché è duro questo lavoro. Vai in giro, sei sempre fuori di casa e quando non arrivano i risultati non è facile, quindi il primo pensiero va a loro. Poi naturalmente il pilota. Ed è un’esplosione di gioia, è sempre la prima volta. Ai bei risultati non ci si abitua mai”.

