Gigi Soldano ha 75 anni e ne dimostra una decina in meno, lo vedi muoversi per la sale stampa di mezzo mondo con un paio di Blundstone ai piedi e i calzini di Spongebob a metà polpaccio. Rasato con cura e pettinato da signore, passa il tempo concentrato sulla sua cosa, la fotografia, con lo stesso approccio di un maestro di karate. È preciso, non spreca, riflette, cerca, prova a divertirsi, a volte sembra che ci riesca.
Gigi Soldano ti guarda così a fondo che incute quasi timore. Deformazione professionale forse, dice che se vuoi fare una buona foto devi guardare dentro a chi te la concede. Non è sempre piacevole perché ti senti aperto, è come una seduta spiritica: le sopracciglia svolazzanti lo fanno sembrare un animale notturno o un vecchio dio greco con una grande passione per la vendetta. Poi, fortunatamente, c’è il momento in cui decide che puoi andar bene, il suo sguardo inquisitore si ammorbidisce e lui comincia a parlare, allentando la tensione.
Ha uno studio a Varese in un quartiere residenziale vicino all’Ippodromo, tra le villette a schiera. Quando ci arrivi pensi alle facce dei vicini che, da quella porticina, hanno visto entrare Valentino Rossi, Casey Stoner, Jorge Lorenzo, Marc Marquez. “Ma è tutta gente a cui non importa granché dei piloti”, racconta Gigi con un sorriso. Uno di questi, dice poi, una volta è arrivato in elicottero. La regola dei piloti è che se Gigi ti scatta, tu prendi il tuo numero di gara e lo appiccichi alla porta dello studio. La sua azienda si chiama Milagro, glielo ha suggerito un’amica spagnola tanti anni fa. “Mi è piaciuto, poi però tocca fare un miracolo al giorno”.
All’ingresso ci trovi le donne della sua vita che organizzano la logistica, gli shooting, gli incontri con i clienti. Alle pareti ci sono una serie di fotografie in bianco e nero che lui dice di cambiare spesso. Poi ricordi, riconoscimenti, begli oggetti, tutto arredato in uno stile moderno e pulito. La stanza successiva invece sembra la taverna di Nathan Drake, la cava di uno che ha girato il mondo vedendo cose che agli altri vengono raccontate. C’è tanta MotoGP quanta Dakar, c’è la storia del motociclismo appesa ai muri. Valentino Rossi sbuca da ovunque: uno stivale usato in chissà quale gara, un cupolino della M1, foto assieme, saponette, guanti. In generale, abbastanza roba da poter mettere un biglietto d’ingresso e campare così, con le processioni dei fan. Gigi, incredibilmente, è anche un grande appassionato di Topolino. La densità di questa stanza, diciamo la carica emotiva per centimetro quadrato, è gigantesca, enorme e inspiegabile.
Da lì, scendi una piccola scalinata e sei nello studio fotografico di Gigi Soldano. Con il fondale bianco, la piattaforma che gira, i pannelli per l’illuminazione. Gli chiediamo come è cominciata e, di fatto, comincia così la nostra lunga chiacchierata. “Per passione, sicuramente è cominciata per passione”, racconta Soldano. “E da bambino. Il mio primo momento da fotografo vero, professionalmente parlando, è stato quando ho cominciato a studiare Scienze Sociali a Trento. Prima di laurearmi lavoravo in un’azienda metalmeccanica, ero assistente del direttore del personale ho cominciato a fare fotografia industriale. Non che mi piacesse molto, ma avevo la passione per quella roba lì”.
Come sei arrivato ad avere la tua opportunità?
“La strada per me è iniziata molto prima, in adolescenza, quando abitavo a Pavia: avevo la possibilità di farmi sviluppare i rullini in 24 ore e a quei tempi era una cosa piuttosto difficile. Poi mi sono ritrovato con una serie di amici appassionati di rally, enduro, cose così. In quel periodo è nato una po’ lo stimolo, poi quando sono arrivato a Varese c’è stato il colpo di fulmine, ho scoperto la Cagiva. Così ho avuto l’opportunità di seguire alcune gare, ho conosciuto Carlo Pernat che faceva l’ufficio stampa e alcuni colleghi che facevano pellicola, un gruppo di comunicazione che si chiamava Pool Communications. Facevano Grand Prix, cose del genere. Mi proposero d’iniziare a girare in 16mm cominciando col motocross, così feci. Mi comprai la cinepresa e iniziai col motomondiale. Di fatto si esponeva la pellicola, quindi era quasi fotografia. Ho lavorato prima in pellicola, poi in video e, finalmente, ho cominciato con le fotografie verso la fine degli anni Novanta”.
Come è nato questo spazio?
“Ci sono arrivato dopo aver avuto già un altro studio, in un’altra sede. Qui c’era la possibilità di creare uno studio a misura mia, che servisse soprattutto a fotografare le moto. La mia preoccupazione è stata quella. Serviva un fondale abbastanza grande in cui mettere le moto, una pedana girevole dove poterle lavorare anche col video. L’idea era quella, poi per gusto personale, passione e tanti motivi l’ho un po’ più arricchito e reso più adatto a me”.
Tu sei l’unico in Italia ad avere un posto così, dedicato alle moto?
“No, no. Magari fatto a misura per le moto, forse. Diciamo che ci ho provato e con spazi ancora più grandi avrei potuto fare cose migliori, anche per scattare le auto diciamo. Però questo è sistemato in modo tale che accendi una luce e sei già pronto. Dipende poi da come vuoi impostare le foto e che tipo di foto vuoi fare”.
Se mettessi un biglietto d’ingresso probabilmente potresti campare di questo.
“Per i più feticciosi! (ride). Beh, sono cose vere, ci sono tanti oggetti particolari. Però è tutto dovuto a passione, amore per questo sport, motivazione di fare le cose in un certo modo. Lo sai com’è: quando ti trovi a lavorare sempre nelle stesse piste, negli stessi posti, rischi di avere stimoli un po’ piatti. Se vuoi rendere sempre bello questo mestiere, dopo tanti anni devi inventarti una soluzione”.
Prima raccontavi che i quadri sulla parete li cambi spesso: sono un po’ come i tuoi animali? Li giri, li sposti, li cambi, fai prendere loro la luce…
“Esatto, gli faccio prendere la luce! A me piace spesso cambiare le immagini, metterle nelle cornici, sistemarle. Alla fine è un modo come un altro per godere di queste cose, perché spesso le metti via e non sai neanche dove sono. Magari invece anche se giochi un po’ con i social queste fotografie è anche bello toccarle. Anzi guarda, vieni con me”.
Gigi Soldano si alza, cambia scrivania, accende il computer e indica un’altra sedia. Poi alza un sopracciglio e chiede un anno, gli chiediamo il 2004. Un circuito, Welkomm. La prima gara di Valentino Rossi con Yamaha, quella del bacio sul cupolino a fine gara per intenderci, vent’anni fa. Tra le varie ci sono alcune foto incredibili, Soldano le scorre in fretta e ogni tanto sorride, gli torna in mente qualche storia. Poi ne guardiamo altre: una vecchia Assen, Jerez, Laguna Seca 2008, con la sequenza del sorpasso al cavatappi che ha una cartella tutta sua. È bello vederci le persone lì in mezzo, come Aldo Drudi al Mugello, sempre nel 2008. Passiamo quasi un’ora a guardare le foto della MotoGP, poi le foto della Dakar, finendo in una selezione dedicata alle gare di scooter in Africa. Quando chiediamo a Gigi con che frequenza si mette a scartabellare nell’archivio, lui si produce mi un sorriso un po’ malinconico: “Quando sono qui, quasi tutti i giorni”.
Da quella porta lì sono passati in tanti a lasciare la firma.
“Il gesto è quello di staccare l’adesivo dal loro cupolino e lasciare una firma, una testimonianza”.
Hai qualche bell’aneddoto a questo proposito?
“Sono sempre situazioni un po’ particolari, a volte c’è fretta, altre il bisogno di fare le cose in un certo modo. Spesso il fatto di avere l’ippodromo qui di fianco è stato interessante, qualcuno ci è anche arrivato in elicottero. Non il pilota che pensate… un australiano. Vabbè, era Casey Stoner (ride). Ma non veniva mica dall’Australia, veniva da Madonna di Campiglio per la presentazione Ducati".
Come vivi la pausa invernale? L’impressione è che dopo il quarto giorno per te diventi più che altro una fatica.
“Un mese di pausa per me è troppo. Ma è vero che con uno studio e un’attività statica come questa di cose da fare ce ne sarebbero. La mia vita va un po’ tutta a a momenti, periodi. Poi aprire uno studio con questi spazi oggi sarebbe una follia, è cambiato tutto molto e si lavora molto più fuori. Meno male che ormai è un bene ammortizzato (ride)”.
Come è stato il 2023, con l’aggiunta delle sprint race?
“Una bella esperienza, ma non nel senso letterale: è stata impegnativa per il numero di gare che è raddoppiato, ma anche sul piano fisico. Tante trasferte continue, attaccate tra di loro e in posti piuttosto lontani, alcuni li abbiamo anche visti per la prima volta. Col senno di poi posso dire che è stato quasi stressante, anche se poi ti impegni e passa tutto. Ripensando a freddo a quello che ho fatto nel giro di due mesi fatico ancora a crederci”.
E l’India?
“È passata veloce, era la prima volta. Quando vai in questi posti e ci stai anche poco non riesci a capire fino in fondo il territorio, noi fotografi abbiamo anche la pista da conoscere per studiare i punti adatti da cui fare le foto. Però devo dire che è stata un’esperienza importante”.
A proposito: quando arrivi su di un nuovo circuito come trovi la curva giusta, quella in cui le foto riescono meglio?
“Fai conto che ancora oggi ripasso sistematicamente le piste, anche le più conosciute, perché sono dell’idea che in ogni pista devi cercare di fare la foto che non hai mai fatto. Sembra un luogo comune, però devi sempre cercare di trovare l’angolazione, qualcosa che si differenzi, che non sia la solita foto. È lo stimolo che ti porta a fare questo mestiere con interesse, altrimenti sarebbe un piattume assoluto quando torni, chessò, a Jerez per la trentesima volta. Potresti bendarmi, portarmi in una curva e ti potrei dire come fare lo scatto. Però le giornate caratterizzano le situazioni, penso ad esempio alla pioggia. L’idea comunque è sempre quella di portare a casa almeno uno scatto diverso da tutti gli altri”.
È quello che ti convince a tornare ogni anno? O sono i piloti, le persone nel paddock?
“Dipende da cosa devi portare a casa, però mi ritaglio sempre dei momenti un po’ più creativi, qualcosa che non sia soltanto la richiesta del tuo cliente o del team ma che vada un po’ fuori dalle righe. Perché poi è quello che caratterizza il tuo lavoro, riuscire a dare quel pizzico in più di creatività e di interpretazione alle tue foto con cui alla fine fai la differenza. Non è facile, ma c’è anche un filo di competizione tra noi fotografi: amici o meno, cerchiamo sempre di trovare un momento, uno sfogo, un punto che sia diverso… e questo pizzico è importante perché ti stimola a fare cose nuove. È figo, come si dice”.
Quindi a fine weekend vi trovate per darvi le mazzate?
“Ci marchiamo a uomo, è una cosa forte. Poi ci sono i social e voluta o meno la roba degli altri la vedi, capita che ti chiedi perché quella foto non l’hai fatta tu… così succede che ti ritrovi a fare le cose all’ultimo per averle un po’ diverse. Questo migliora il lavoro di tutti. E credo che qualitativamente la MotoGP sia cresciuta molto a livello di immagini, fotograficamente ha fatto un gran passo in avanti e la competizione tra fotografi è sicuramente tra i motivi che hanno portato a questo”.
I social sono più un castigo o una benedizione?
“Tutte e due, in assoluto. Sono uno stimolo, sicuramente. E allo stesso tempo un castigo spaventoso, perché se non pubblichi, se non ci sei… però sei fortemente stimolato a fare delle cose e questo lo trovo positivo. Se non esistessero magari ci sarebbero altre soluzioni, però avere stimoli è fondamentale, altrimenti ti piace meno”.
Due anni senza Valentino Rossi in MotoGP. Come hai vissuto tutta questa storia?
“Ho avuto delle belle opportunità di lavorare con lui, anche fuori dalle piste. In un modo o nell’altro è passata, però è vero che senza di lui mi sono messo a cercare nuovi stimoli. Ricordo le pochissime gare in cui non c’è stato, nei suoi campionati, in cui mi sono sentito veramente perso senza. Poi ho trovato - scenograficamente parlando - qualche piccolo sostituto e ho allargato un po’ il mio punto di vista. Comunque si va avanti uguale, trovi degli stimoli e ti abbini a personaggi che possono essere quelli più scenografici - continuo a ripetere questo termine, vabbé - perché sono quelli che ti danno spazio, ti danno retta, quel famoso discorso per cui devi provare a entrare nell’anima delle persone che vuoi fotografare. È più facile se lavori anche per il team di quel pilota, perché hai modo di muoverti meglio. Però è vero che senza Valentino non ci sono più certe situazioni e chi le ha vissute per anni adesso fa un po’ di fatica. Però si supera”.
Chi ti accende l’entusiasmo oggi?
“In questo momento i miei soggetti preferiti sono Bezzecchi, anche Marini se vuoi… e Quartararo. Più o meno questi, poi un po’ tutti”.
Sei mai geloso, invidioso dei piloti?
“Io? Ma io non nasco motociclista, nasco appassionato di moto”.
Beh, ci sono tanti appassionati che darebbero una falange del pollice per fare una curva come uno di questi ragazzi.
“Dico la verità: per me la massima espressione di motociclismo è quella di guidare la Vespa e non solo. A me piace la Vespa moderna! Il mio concetto di movimento su due ruote è legato alla praticità, all’andare da qualche parte velocemente. Il massimo che posso concepire è un Varese-Milano, non uscirei mai il weekend con mia moglie ad andare a vedere il Lago… che ne so, di Orta! Anche perché magari ti devi muovere con le attrezzature e ti risulta anche più complicato farlo. Bello, ma andare in moto non è la mia passione. La moto in senso più ampio è la mia passione".
Per te lo stile bello da fotografare è quello del pilota alla Jorge Martín, che si butta per terra a raschiare il cordolo con la spalla?
“Certo, ma è inevitabile. Alla fine quando fai una bella foto è il pilota che ti ha permesso di farla, non sei tu. Io parto sempre da questo concetto, che nasce un po’ nelle situazioni di tutti i giorni, per esempio quando vado a fotografare i giornalisti - o i tester - quando ci sono le prove delle Case, delle moto di prodotto: ti ritrovi quello che sa andare forte e quello che sa andarci meno e le foto rispecchiano questa cosa. Non è colpa di nessuno eh, ma capita che a volte devi proprio piegare la foto (ride). Succede un po’ lo stesso quando sei su di un elicottero, anche lì è il pilota che guida il mezzo a fartela fare”.
Con gli shooting invece chi sono i piloti migliori con cui lavorare?
“Ho fatto di recente uno shooting con dei piloti per Oakley, dove il pilota di fatto deve apparire un po’ più da modello… e ti dirò che uno dei migliori è stato Marquez. Marc, Marquez. L’ho visto entrare proprio nella parte, altri non sanno neanche posare. Un altro che mi è piaciuto molto è Fabio Quartararo. In questo senso sono un po’ attori, soprattutto Marquez. Mi sono dovuto ricredere…(ride). Il fatto è che ne hai di simpatici e di meno… mi era piaciuto Bastianini, lui è un altro di quelli giusti”.
Chiudiamo: come vedi questo 2024?
“Sarà un campionato ancora Ducatista, ci saranno delle battaglie interne in cui sicuramente i nuovi arrivi detteranno regole nuove all’interno di team satelliti e succederà qualcosa come stava succedendo quest’anno con la Pramac. Mi aspetto un Team Gresini agguerrito, questo sicuramente. Comunque vada saranno 21 GP, 42 gare… eh, un campionato di 42 gare non sarà male”.