Post Gran Premio di Spagna, vinto da Oscar Piastri. 1-2 McLaren al Montmelò. Ma la famiglia papaya non è l’argomento di conversazione di quelli che sono i primi momenti dopo Barcellona, no perché – dopo nove gare all’attivo – è ormai già evidente quella sorta di assuefazione al dominio delle MCL39. E non è per mancare di rispetto al lavoro di Andrea Stella, né al sogno di due giovanissimi che a dicembre, tanto per uno, potrebbero varcare la soglia dell’olimpo dei grandi. Non è per sminuire la costanza e la freddezza del numero #81, che, sì, esulta in piedi sul muso della sua vettura, ma al sabato nemmeno accenna a quell’entusiasmo che solo la pole ti può regalare. E non è nemmeno per bissare la graduale ripresa del numero #4, segnata da un lungo digiuno che lo ha accompagnato dall’Australia al Principato.

La famiglia papaya non sarà il focus del momento, eppure ci ritroviamo già dinanzi a una manciata di righe che sembrano suggerire il contrario. Un controsenso? Magari è solo perché quest’anno non si può parlare del vero protagonista di questa riflessione senza anche solo accennare al suo unico avversario: il team di Woking. Un due contro uno che al Circuit de Barcelona Catalunya si è fatto sentire più che mai, con lo zampino di una Red Bull che ha sbagliato di grosso. Sì, parliamo di Max Verstappen. Magari, il fatto è che non ci sarebbe nulla di cui parlare se non fosse per lui. Che, se i giochi in McLaren devono ancora farsi duri, con due piloti che – prima o poi – dovranno vedersi assegnata la priorità, ci pensa il quattro volte iridato ad aggiungere un po’ di frenesia in una cavalcata che, altrimenti, vedrebbe un arancione tutt’altro che olandese allontanarsi senza mai guardarsi indietro. E Max lo sa bene, memore di un 2023 dove gli specchietti retrovisori della sua RB19 sono serviti a poco. E allora dove ci porta questo binomio o, meglio, questa danza a tre? Sembra, dopo il singolo punto ottenuto domenica dall’olandese, che non conduca a nulla.
A nulla se non a una lotta continua contro tutto e tutti, nel primo anno realmente complicato per colui che a Barcellona ha mosso i primi passi in Formula 1 e che, proprio lì, ha vinto la prima. E quando diciamo contro tutto e tutti intendiamo gli avversari, certo, ma anche i media, che al termine del Gran Premio di Spagna così tanto si sono impegnati per ottenere i titoli da prima pagina, di quelli che fanno così rumore da non poterli ignorare. Li hanno guadagnati, certo, perché anche non rispondendo alle insinuazioni dei reporter britannici che lo vestono sempre e comunque dei panni del cattivo, Max ha lasciato il segno, quello che basta e avanza per trasformarlo in una calamita. E sembra un copione già sentito, figlio di Austria o Ungheria 2024, di anni di guida al limite, un limite che però devi raggiungere se vuoi ritenerti un campione. Alla domanda “la mossa su George è stata intenzionale?”, il numero #1 di Milton Keynes risponde: “è davvero così importante?”, per poi sentirsi impartire la lezione che più sembra andare di moda nel paddock della Formula 1 moderna, quella sull’impressione che si dà a chi guarda da casa. Dopo uno scambio di battute sulla performance nel suo complesso, ecco che si tocca nuovamente il tasto della frustrazione, quella provocata dal ridare la posizione a George Russell: “è questa che ti ha portato a fare quella manovra?”. Poi un complimento per le doti dimostrate (più recentemente a Imola) e infine la preoccupazione per il lato più aggressivo della sua guida, “è orribile vedere la tua bravura oscurata così”. Ed ecco che la lezione già impartita si ripete, con una aggiunta importante: al “sul serio?” di Max segue un “credo di sì, per le persone e i bambini che guardano”. “Questa è una tua opinione”, risponde secco il quattro volte iridato, per poi lasciare l’intervista, non intenzionato a protrarre una conversazione che aveva l’unico obiettivo di metterlo in cattiva luce. Il botta e risposta fa il giro del web e lascia, nonostante le risposte abbottonate, il segno menzionato in precedenza.
Tuttavia, alla vigilia di questa settimana di pausa e forse a mente più lucida, il nativo di Hasselt ha dichiarato che la mossa su George Russell non avrebbe dovuto accadere, frutto di una frustrazione che solo un pilota messo in gabbia da una monoposto passabile e da penumatici privi di aderenza può comprendere. Una scusa velata, forse, che non cancella però l’atto compiuto e il successivo assedio subito. Che, cercare di mettere in difficoltà anche i piloti McLaren nella speranza che dicano qualcosa di sbagliato sul loro rivale non è corretto, ma purtroppo è la regola. E vedere i loro volti, consapevoli della trappola tesa loro, non è Formula 1, è solo spettacolo. Per non parlare di Norris che, pur di parlare di sé stesso, evita le domande su Verstappen e si lancia in un’autoanalisi di cui, evidentemente, a nessuno importava. E allora viene da chiedersi se questa trama già vista, tra implicite allusioni e perentoria disapprovazione, non debba ormai lasciare più spazio ad analisi tecniche e commenti di gara. Certo, è un sogno utopistico, nello sport come altrove, in un mondo che fa della notizia la sua religione e delle parole fuori posto il suo credo.
Ma se c’è una cosa chiara oggi, è che la narrazione mediatica che dipinge Verstappen come quell’ombra ostile in un paddock che predica la restrizione — un po’ come quella su casa McLaren in un 2025 che li vede già campioni — ha ormai raggiunto il picco di assuefazione. Perché andare avanti a ritagliare dichiarazioni su momenti singoli di rabbia, in una Formula 1 che altro non è che nervi e competizione, è come fissarsi su una battuta d’arresto, dimenticando della corsa nel suo insieme. Dimenticarsi, forse, dell’umanità che sta dietro la macchina e di quella cosa che nel motorsport rende tutto più grande: l’istinto viscerale. Che poi altro non è che un mix di adrenalina e fragilità che guida ogni pilota oltre il limite, trasformando ogni gara in una sfida non solo contro gli avversari, ma soprattutto contro sé stessi. Sembra quindi che oggi l’apparenza sia preferita alla sostanza, e la narrazione privilegi quella forma di bon ton che edulcora la vera fatica e la tensione della competizione. Ma il campione autentico nasce proprio dallo specchiarsi nei propri limiti ed errori, dalla fame di vittoria e non da un’immagine rifinita. Rinunciare a questa realtà significa perdere l’essenza stessa dello sport.
