Sembrava una storia perfetta: una squadra ambiziosa, un progetto di crescita, un gruppo unito. “Una grande storia d’amore”, la definisce Asja Cogliandro. Fino a quando quella stessa squadra non avrebbe deciso di scaricarla. Il motivo? Una gravidanza. Siamo nel 2025, eppure accade ancora. Lei, 15 anni di carriera tra A1 e A2, ultima stagione a Perugia, racconta così la rottura a La Stampa: “Una violenza psicologica che non capisco. Mi hanno sbattuta fuori come un pacco da spedire, come se fossi diventata scomoda, ingombrante, un ostacolo”. Tutto parte dal rinnovo firmato con entusiasmo dopo la promozione in A1: “Sapevo che non sarei stata titolare, ma il mio ruolo nello spogliatoio era chiaro, anche per la società. Quelle due-tre urla di esperienza servono, eccome. Se non fossi rimasta incinta, i miei spazi li avrei trovati”. La firma arriva a maggio 2024. Poi, a gennaio, la scoperta della gravidanza: “Una gioia immensa, ma anche paura. L’anno prima avevo avuto un aborto, ero in cura, mi dicevano che sarebbe stato difficile. Quando ho saputo di aspettare un bambino ero a Formia, col mio compagno. Un’emozione fortissima”. Il giorno dopo l’allenamento, decide di fermarsi. “Avevo parlato con le compagne storiche. Poi però le ho viste agitate. Ho capito che non si poteva andare avanti così. Il giorno dopo ho comunicato tutto al direttore sportivo”.
La prima reazione, racconta, è positiva: “Congratulazioni, abbracci. Ma chiedo riservatezza perché è presto e la gravidanza è a rischio. Non viene rispettata. Inizia un altro film”. In poche ore cambia tutto: “Mi chiedono di lasciare subito la casa, di restituire le mensilità d’affitto già pagate. Senza avvertimenti. Solo pressioni. Mi impongono di attivare la maternità, ma quella scatta due mesi prima del parto. Io ero ancora sotto contratto”. Iniziano trattative informali. “Vogliono trovare un accordo, io rifiuto. Mancano 12mila euro al saldo del contratto. Una cifra ridicola, ma per loro era solo una questione di principio: tagliarmi fuori. Ho subito una violenza psicologica, è questo che non posso accettare”. Prova a offrire alternative: “Gestire i social, dare una mano in ufficio, congelare il contratto per poi tornare a giocare. Niente. Volevano solo liberarsi di me. Mi hanno dato dell’ingrata, mi hanno detto che se non accettavo l’accordo non avrei mai più trovato una squadra. E forse hanno ragione: ora piuttosto vado a fare il muratore. Con rispetto, non sarei capace, ma il volley mi disgusta. È diventato un mondo che non riconosco più”.

Il supporto? Scarso. “L’allenatore ha chiesto alla società almeno di evitare figuracce, alcune compagne mi hanno scritto in privato, ma la paura è ovunque. Il volley non è un ambiente sano. Anche per questo parlo: basta intimidazioni”. E se la società resta nell’ombra, il bersaglio è chiaro: “Comandano il presidente e quattro soci. Non so chi ha deciso, ma è evidente che nessuno vuole rimetterci nemmeno due spicci. Fanno leva sul mio bisogno di stare tranquilla. Ma io aspetto un figlio, non sono sparita. Anzi, quando sono partite le comunicazioni legali hanno detto che ero fuggita senza avvisare. Mi prendevano in giro. Se davvero fossi sparita, mi avrebbero diffidata, e invece nulla”. Il precedente di Laura Lugli, licenziata nel 2019 mentre era incinta e poi portata in tribunale, sembra non aver insegnato nulla: “Siamo ancora con contratti co.co.co. a tempo. Non siamo professioniste. Le norme sono cambiate? Sulla carta forse. Ma se continuiamo a chinare la testa io non sarò l’ultima. È ora di dire basta”. La Nazionale femminile, reduce dall’oro e da un movimento in crescita, sembra l’alibi perfetto per un sistema che si autoassolve. “Ma dietro c’è il vuoto. Tante società non sono all’altezza. In Lega ci sono persone che conosco da quando ero bambina e oggi si girano dall’altra parte”. E intanto, in mezzo a questa battaglia, Asja tiene in piedi il suo equilibrio: “Mi sostiene il mio compagno, che è nella Marina, e il mio avvocato Alessandro Marzoli. Lui soprattutto, adesso che lo scadere si avvicina. So che a Perugia contano sul fatto che io abbia altro a cui pensare. Che schifo”.