Dal 2019, Julian Assange, il fondatore di WikiLeaks, è detenuto nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh, a Londra, la “Guantanamo inglese”. Se estradato negli Stati Uniti, il 52enne australiano dovrà affrontare accuse mosse contro di lui dagli Usa ai sensi dell'Espionage Act del 1917 che potrebbero equivalere a una pena fino a 175 anni di prigione, secondo i suoi avvocati. Alice Jill Edwards, relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla tortura, ha esortato la Gran Bretagna a fermare l'estradizione di Assange spiegando che, se estradato, sarebbe a rischio di trattamenti equivalenti a tortura o altre forme di punizione. In una dichiarazione, ha sottolineato i rischi che potrebbe affrontare, tra cui “un isolamento prolungato, nonostante il suo precario stato di salute mentale, e una pena potenzialmente sproporzionata”. Secondo altri, potrebbe addirittura morire. Anche il governo australiano ne chiede il trasferimento nel suo Paese di origine, così come organizzazioni internazionali come Amnesty International e Reporter Senza Frontiere, chiedono da tempo che le accuse contro Assange vengano ritirate e che l'ordine di estradizione venga annullato. Come aveva previsto il giornalista Premio Pulitzer Chris Hedges, l'Alta Corte di Giustizia britannica, chiamata a pronunciarsi sull'appello della difesa contro l'estradizione negli Usa, terminata l’udienza, ha rinviato la sentenza a data da destinarsi, senza fornire indicazioni precise su quanto verrà emesso il verdetto. “La farsa legale prosegue come l'interminabile caso Jarndyce e Jarndyce nel romanzo Bleak House di Charles Dickens” ha scritto Hedges. “Probabilmente andrà avanti ancora per qualche mese: non ci si può aspettare che l’amministrazione Biden aggiunga l’estradizione di Julian a tutti gli altri suoi guai politici”. Abbiamo parlato del caso Assange con la giornalista Germana Leoni, autrice del libro Julian Assange. Niente è come sembra pubblicato da Nexus Edizioni.
Dall’Alta Corte di Londra dovrà uscire la decisione definitiva sull’estradizione del fondatore di Wikileaks negli Stati Uniti, dove lo aspetta un processo che lo vede imputato per la pubblicazione di 700mila documenti secretati relativi ad attività militari e diplomatiche degli Usa, a partire dal 2010. Come giudica le accuse nei confronti di Julian Assange?
Sono innanzitutto inesistenti, perché non ci sono accuse valide. Assange è rinchiuso in un carcere di massima sicurezza, a Belmarsh, senza che vi siano delle accuse specifiche nei suoi confronti. É in attesa di essere estradato negli Stati Uniti, dove lì si è accusato ai sensi dell’Espionage Act. Ma è assurdo accusare Assagne con questa legge del 1917, varata in tempo di guerra. Era preposta a perseguire coloro che tradivano e consegnavano documenti riservati dei servizi al nemico, al Paese straniero, nel contesto di una guerra. Come si fa ad applicare una legge del genere a Julian Assange? Senza contare che è un cittadino australiano, che non vive negli Stati Uniti. Qual è il nemico, in questo caso? È un giornalista e un editore, e i segreti li ha rivelati all’opinione pubblica. Allora dobbiamo dedurre che siamo noi, opinione pubblica, il nemico? E attenzione, Julian Assange non ha solamente rivelato delle informazioni, ma le ha soprattutto documentate. Le opinioni sono contestabili, ma ciò che non gli perdonano è che abbia documentato tutto. Ma c’è un altro aspetto: il trattato sull’estradizione tra Stati Uniti e Regno Unito prevede che non sia possibile estradare nessuno sulla base di un processo politico. E se c’è un processo politico, è proprio quello contro Julian Assange. Come giornalista e come editore, lui non aveva solamente il diritto di pubblicare, ma il dovere di farlo. Perché la stampa è quella che dovrebbe controllare l’operato dei governi, secondo le regole base dello stato di diritto. La stampa serve a questo, a controllare. E se non c’è più controllo, non c’è più democrazia.
Ma chi è davvero Julian Assange? È stato accusato, anche da certa stampa di essere una “spia”, di aver fatto un favore ai russi…
È un giornalista e un editore che ha fatto il suo lavoro. Null’altro. Non è una spia. Per la legge americana non è reato pubblicare notizie sottratte da qualunque fonte sempre che non sia l’editore o il giornalista stesso ad aver operato il furto. La legge è molto specifica su questo. Casomai il problema è dell’hacker, ma Julian Assange non è un hacker. Lo è stato da ragazzino, per pochi anni. Faceva parte di un gruppo di ragazzi, di giovanissimi hacker australiani, che a un certo punto sono stati perseguiti. Anche se, nemmeno all’epoca, nessuno ha rilevato gli estremi per incriminarlo. Hanno invece riscontrato che Assange era mosso, anche da giovane, dal desiderio di trasparenza. Dopodiché, da allora, Julian non ha più avuto a che fare con la figura dell’hacker. Lui riceveva informazioni che talvolta provenivano sì da qualche hacker, ma casomai il problema era di quest’ultimo. Ripeto: il giornalista non ha solo il diritto ma il dovere di pubblicare notizie di interesse pubblico. Inoltre, non erano solo hacker ma soprattutto whistleblower a rivolgersi a lui. Come Chelsea Manning, che faceva parte dell’intelligence Usa di stanza in Iraq: quando non ce l’ha fatta più a reggere ciò che vedeva, ha cominciato a trasmettere le informazioni ad Assange. Semmai, dunque, il problema è di Manning che ha peraltro pagato il suo conto con la giustizia, prima che un giudice stabilisse che aveva pagato sin troppo. Dobbiamo capire che quando i governi si reggono troppo sulla riservatezza, vuol dire che c’è qualcosa che non va. La “colpa” di Assange è stata quella di aver rivelato i crimini degli angloamericani nei vari teatri di guerra come Iraq e Afghanistan. Siamo arrivati al punto che si persegue non chi commette i crimini ma colui che lo denuncia e questo è gravissimo. Eppure abbiamo esempi eccellenti in passato.
Per esempio?
Torniamo indietro di qualche decennio, nel 1970. Abbiamo uno dei più grandi giornalisti investigativi del mondo, Seymour Hersh, che ha fatto esattamente ciò che ha fatto Julian Assange oggi, rivelando i crimini degli americani, in quel caso in Vietnam e documentando il massacro nel villaggio di My Lai.
E prese il Premio Pulitzer per questo.
Esatto. Ci rendiamo conto che oggi, per la stessa cosa, si finisce in galera? Questo è di una gravità incredibile, è il processo di involuzione di una ex democrazia. Ma se vogliamo parlare degli insider dell’intelligence, allora prendiamo una figura come Daniel Ellsberg, colui che rivelò i Pentagon Papers svelando la strategia occulta degli Usa in Vietnam. Ma Ellsberg non era un giornalista: eppure un giudice si pronunciò in sua difesa, spiegando che rivelò informazioni di interesse pubblico e che la popolazione aveva diritto di conoscere. Oggi Daniel Ellsberg è Edward Snowden, che non ha voluto fare la fine di Julian ed è dovuto fuggire in Russia. E non è l’unico ad essere scappato.
Non sono incoerenti i grandi media che criticano Assange ma, dall’altra, hanno sempre pubblicato le notizie di WikiLeaks?
Non solo solo incoerenti. Teniamo presente che giornali importanti come Der Spiegel, il Guardian e il New York Times, avevano proprio un contratto con Wikileaks. C’è stato silenzio dalla stampa, perché le accuse più infamanti sono arrivate dalla politica
Quali accuse, nello specifico?
L’accusa di stupro contro Assange avanzata da due donne, che si è rivelata falsa ed era evidente fosse fabbricata sin dall’inizio. Si è poi scoperto che erano state “spinte” a denunciare Assange, nonostante non ci fosse nulla di vero né tantomeno una violenza sessuale. Quella è un’accusa fabbricata ad arte da parte dell’establishment: la strategia è sempre quella di criminalizzare la figura scomoda di turno e far scattare la macchina del fango. Vale per Assange così come è stato per altri personaggi scomodi, anche politici. Quando si vuole attaccare un Paese, ad esempio, la prima operazione è quella di diffamare ogni modo il suo leader: lo abbiamo visto con Saddam Hussein, con Gheddafi e con tanti altri. La grossa colpa dei giornali nei confronti di Assange è stata quella di prestare il fianco ad accuse diffamanti che erano vere e proprie fake news. Non dimentichiamoci inoltre che tra alcune testate siedono giornalisti ingaggiati dai servizi. Non è certo un segreto: nel 1948, i servizi segreti americani lanciarono l’operazione Mockingbird: consisteva nell’infiltrare agenti dell’intelligence, previo addestramento, nelle principali testate, fino alle posizioni di comando. E quando non infiltravano degli agenti dell’intelligence, avevano i giornalisti a libro paga. Ci sono fiumi d’inchiostro su questo, ed è tutto documentato. Più recentemente, abbiamo avuto l’esempio del giornalista tedesco Udo Ulfkotte, che ha rivelato di essere stato per 17 anni al soldo dei servizi, prima di morire pochi anni dopo. Sembra che faccia male alla salute rivelare notizie del genere…