«Qui c'è qualcosa che non va». Sono bastati 30 secondi dall'inizio del discorso per dare il vero senso della situazione. Il presidente dimissionario-ma-in-stand-by Mario Draghi aveva appena esordito coi saluti che già un effetto sonoro stridulo aveva sporcato l'incipit, conferendo un effetto che non doveva essere tanto lontano dall'umore inacidito che lo ha portato lì dove si trovava. Cioè a dare comunicazioni al Parlamento dopo quasi una settimana dalle dimissioni, e soltanto perché il presidente della Repubblica glielo ha imposto, sennò altrimenti lui sarebbe stato già al mare. C'era un problema coi microfoni, la cui rapida soluzione ha smorzato parte della gravità del momento. E poiché si era esordito con l'intoppo, è stato un po' meno complicato andare avanti con la Sagra del Rabbercio. Perché in fondo di questo si trattava. Fra le dimissioni annunciate e questo discorso fatto col timbro di chi dice “ma in fondo in fondo, se proprio mi trattenete...”, c'è stato quel 'tempo di decantazione' (vocabolario da Prima Repubblica portato di peso dentro questa incerta Terza) che ha cambiato molte cose senza che gli attori della crisi si spostassero di un millimetro.
E in fondo è proprio in giorni come questi che comprendiamo perché mai un politologo americano diceva negli Anni Ottanta che noi italiani siamo dei geni in politica. Si chiama Joseph Lapalombara, e a dispetto del cognome un po' così non è un fake tipo il comune di Bugliano in provincia di Pisa, ma un signore di 97 anni che a differenza di Henry Kissinger ha capito di avere l'età per farsi da parte anziché continuare a scassare la minchia. Secondo lui, tutti quanti abbiamo Machiavelli dentro e riusciamo a cavare dal cilindro la soluzione impensabile. E così, decantando decantando, l'ex Supermario che nel frattempo ha dovuto affrontare qualche deminutio, ha giocato la carta del cambiamento di constituency: non più i partiti del governo di unità nazionale, ma la nazione unita intorno a lui. Un rabbercio, ma fatto con la benedizione della sovranità popolare. Gli italiani sono lui e lui è gli italiani. E non si sa se sia la narrazione di comodo per scansare l'accusa d'incoerenza che lo accompagnerebbe dopo il passo indietro rispetto alle dimissioni, o se piuttosto sia l'effetto di un training autogeno ai limiti dell'ipnosi da cui è uscito riprogrammato come i soldati americani di “The Manchurian candidate”. Fatto sta che quel sentirsi in connessione diretta col popolo gli ha fatto ridisegnare i riferimenti.
Frasi come «gli italiani sono diventati i veri protagonisti delle politiche», o «il PNRR è una trasformazione dal basso», fino allo stentoreo «sono orgoglioso di essere italiano». E in questo cambiamento di riferimenti c'è anche la fissazione di un diverso ordine nei gradi di prossimità: prima il popolo, in seconda battuta la cosiddetta società civile e la classe degli amministratori locali, in terza battuta il parlamento, e a chiudere i partiti coi loro leader. C'è stato quasi un ruggito quando il premier-dimissionario-ma-forse-no ha detto che l'appello giunto dalla società è «impossibile da ignorare». E siamo sempre dentro quel registro, «se me lo chiedono che ce posso fa'?». E proprio perché glielo chiedono si sente autorizzato a rampognare i partiti che hanno “crescente desiderio di distinguo”, e partecipano a proteste “non autorizzate e talvolta contro la maggioranza di governo”.
Da lì in poi è stato un seguito di affermazioni nette: sì ai rigassificatori, no alle “autocrazie”, armiamo l'Ucraina. Col climax nella coda di quell'interrogativo rivolto ai parlamentari con cui ha chiesto ripetutamente se siano pronti a riprendere “quello sforzo che poi si è affievolito”. «Sono qui perché gli italiani me lo hanno chiesto» non poteva che essere la chiusura. C'era un tempo in cui a chiedercelo era l'Europa. E non sapremmo dire se sia un passo avanti o tre indietro.