L’ambasciatore di Israele in Italia e a San Marino Alon Bar è stato spesso attaccato per le sue reazioni di biasimo nei confronti di chi in Italia ha pubblicamente manifestato la propria opposizione alle operazioni militari di Israele. Con qualche “traduzione d’autore” della stampa italiana, che punta a colorare le sue affermazioni in modo da dare l’idea di uno scontro aperto, molto poco realistico e verosimile, tra l’ambasciata israeliana nel nostro Paese e, per esempio, il Vaticano, un ministro del governo italiano e così via. Per fortuna le interviste mandate in onda possono essere un modo per concentrarsi sui toni e sui trucchi di chi ha un ruolo di comunicazione e gestione dei rapporti tra Paesi. E proprio i trucchi non dovrebbero essere demonizzati, perché fa parte del linguaggio politico essere decisamente più sofisticato e complesso del linguaggio da bar. O da Sanremo. Così Alon Bar, nell’intervista su Rai Radio 1 nel programma di Annalisa Chirico, insieme al direttore Francesco Pionati, ci dà una lezione di chiarezza che farebbe bene al dibattito, anche grazie a un certo grado di astrattezza che discussioni così dovrebbero mantenere, salvo aver invitato solo ed esclusivamente esperti e tecnici di settore, cosa poco popolare in Italia. Si parte dalla vittoria totale contro Hamas, ancora una volta una parafrasi a braccio di ciò che Israele sta puntando a ottenere. Spiega Alon Bar: “La vittoria totale è una terminologia politica, non militare o operativa. La definizione operativa di Israele è abbastanza semplice e chiara: eliminare Hamas e la sua capacità militare di lanciare un altro attacco contro i civili israeliani e, naturalmente, liberare gli ostaggi. A lungo termine si vuole creare una leadership alternativa a Gaza che non costituisca un pericolo per Israele. Difficile ma raggiungibile”. Si fa notare anche che “le idee non si sradicano con le armi”, cosa se non falsa impropria. Le idee non sono pericolose se non sono idee che possono essere messe in atto. La differenza tra la censura e la difesa è proprio questa: le idee possono continuare a essere veicolate, anche se orribili, purché non dimostrino di essere effettivamente realizzate. Tuttavia, una volta ancora, l’ambasciatore mostra la distanza tra un dibattito pubblico su temi complessi e un dibattito reale (quindi spesso non pubblico) su temi difficili: “Io capisco che questa guerra non creerà molta solidarietà nei confronti di Israele, ma noi siamo più pragmatici. Non parliamo di sradicare le idee o un movimento. Parliamo di eliminare la capacità militare di Hamas e la sua influenza, per creare un’alternativa, una leadership diversa che possa dialogare con noi, con i Paesi occidentali, con altri Paesi arabi pragmatici per creare un’alternativa. Tutto questo con Hamas è impossibile”. Varrebbe anche la pena di leggere quanto Vittorio Emanuele Parsi scrive in Il posto della guerra e il costo della libertà (Bompiani, 2022).
È proprio questo pragmatismo che porta l’ambasciatore a negare categoricamente qualsiasi possibilità per una soluzione a due Stati fin quando Hamas resterà al potere a Gaza: “In questa fase che, come probabilmente sapete, c’è un dibattito su questo tema in Israele. Hamas controllerà questo Stato palestinese? Non è la soluzione minore. Noi pensiamo che eliminando Hamas, la sua capacità militare, la sua influenza nel campo politico, potrebbe creare un’alternativa sul lato palestinese. Questo potrebbe portare a un dialogo, con la partecipazione nazionale, parlando con gli Stati Uniti e l’Italia, che sono coinvolti. Creando un futuro diverso con una autorità palestinese diversa, non si possono escludere altri scenari futuri”. Nessuno nega il dibattito all’interno della società israeliana su questi temi, neanche lui: “Israele è un Paese democratico e sappiamo che c’è un dibattito, ci sono molte critiche al governo da diverse parti e c’è un dilemma delle priorità: i combattimenti ci aiuteranno a liberare gli ostaggi o li metteranno a rischio? Allora, Hamas non deve tornare ad avere la capacità di lanciare altri attacchi. Sono tutte considerazioni difficili da fare, sarei sorpreso se ci fosse unanimità”. È chiaro vi sia una certa ripetizione seriale di alcuni concetti, la sconfitta militare di Hamas, il fatto che non ci sia altra scelta, sul fatto che le critiche a Israele siano legittime ma non le accuse di genocidio (in realtà, anche le critiche a Israele sono state sempre gestite con poca apertura). Ma fa parte di quei trucchi che non dovremmo schifare.
Sono insoddisfacenti le risposte sul coinvolgimento della popolazione civile. Chiaramente Hamas usa come scudi umani i palestinesi e questo rende impraticabile qualsiasi tentativo di evitare morti civili. Ma la proporzione degli attacchi non può tener conto in nessun modo di questo grave handicap. Il problema è, semmai, chi usa questo per appellarsi a una pace impossibile per qualsiasi Paese liberale, una pace cioè che ceda terreno a Hamas. Se questo viene specificato anche dall’ambasciatore – “per costruire un futuro per i nostri figli e per i palestinesi, non possiamo far sì che Hamas recuperi la sua capacità militare” – un mea culpa sul numero di vittime civili non arriva, un po’ per questioni di uso privato della ragione un po’, probabilmente, per un autentico senso del terrore esistenziale, quello che gli israeliani stanno legittimamente provando dal 7 ottobre scorso. Terrore acuito da un altro dato di fatto, che in parte sconvolse l’opinione pubblica anche ai tempi dell’11 settembre quando gli americani realizzarono per la prima volta di essere vulnerabili nonostante la loro forza fosse schiacciante: “Siamo rimasti sorpresi dal fallimento sia della nostra intelligence sia delle nostre forze militari dal proteggere i civili. E dobbiamo creare un’altra struttura sia di intelligence sia di protezione militare”. Ottima, infine, la vaghezza sul futuro di Bibi Netanyahu, convinto di poter governare ancora per qualche anno, fino a fine mandato: “Non sono sicuri che siano tutti d’accordo”. Lo crediamo anche noi.