Si chiama Mustafà Etrazi e è il muratore nordafricano che nel 2018 ha ripulito per la prima volta il canale di Tromello, a Garlasco, trovando l’ormai famoso zaino militare con attrezzi da lavoro compatibili con l’arma del delitto di Chiara Poggi. E’ un’altra delle figure assurde e spuntate dal nulla di un caso che continua a complicarsi e arricchirsi di colpi di scena e personaggio, quasi in un disegno volto a generare confusione per allontanare la verità mentre la si cerca. Mustafà Etrazi, però, al contrario di molti altri, ha articolato, circostanziato, provato tutto quello che ha detto. E adesso ha anche parlato di nuovo. Sì, lo ha fatto al settimanale Gente, svelando dettagli importanti, ma forse ai più è sfuggito che lo ha fatto anche a Canale122, durante l’approfondimento “Incidente probatorio. Cronache d’estate”. E ha detto molto, ma davvero molto di più, di quello che è finito in edicola sul numero dell’11 luglio di Gente. Sì, ha riferito di aver trovato anche scarpe. “Quelle non le ho tenute, ma posso comunque mostrarle – ha detto – erano 43, 44 di numero e io ho il 42”. Spiega perché ha conservato gli attrezzi e, contestualmente, racconta di essere solito conservare le foto di ogni cosa e di avere un PC pieno di immagini scattate negli anni. Pezzi di vita magari anche insignificanti, ma conservati. E adesso quelle foto di cui Etrazi parla potrebbero rivelarsi il problema più grande di chi, da anni, lavora affinchè l’omicidio di Chiara Poggi resti un mistero mai realmente risolto?

Parla pacatamente, con garbo, circostanziando tutto quello che racconta. E, incalzato, ammette pure che adesso la sua vita non è più la stessa. Perché sono stati in tanti, tanti davvero a Garlasco, a ricordargli che “le spalle che si vanno a toccare sono grosse”. Il riferimento non è esplicito, ma le immagini parlano chiaro e, in un'altra parte della videointervista, Etrazi dice senza mezzi termini: “Un signore che ho accompagnato in macchina mi ha detto che tutti hanno paura di queste persone qui. Ma mi chiedevo perché avere paura, perché la paura io l’ho conosciuta in Marocco”. Il cognome non lo fa, ma il montaggio del video, in quell’esatto istante, inquadra il citofono di casa “Cappa”. Poi è lo stesso Etrazi a sciogliere la riserva: “L’ho chiesto anche a una giornalista, ‘ma chi sono questi Cappa?’, e non ha voluto rispondermi. Poi, piano piano, mi ha risposto”.
Il video lo riportiamo qui sopra, integralmente. E non serve stare a aggiungere di più, anche perché è il lavoro di altri. Quello che invece impressiona è come, anche alla luce di dichiarazioni così, la stampa e i media in genere che si stanno occupando con aggiornamenti ogni quarto d’ora sul Caso Garlasco continuino a concentrare tutto sul presunto ritrovamento, da parte di Mustafà Etrazi, di un paio di scarpe con la suola a pallini. Come se fossero la prova regina per incastrare qualcuno. O qualcun altro che a questo punto sia più incastrabile di Alberto Stasi. “Io non ho mai detto che le scarpe che io ho trovato avevano la suola a pallini – spiega – Avevano su un lato qualcosa di simile a dei pallini e sicuramente avevano l’etichetta, bianca, da cui è possibile leggere la marca. Invece ho detto sicuramente che a me non stavano perché più grandi del mio numero, che è 42”. E ha le foto. Quelle basteranno a risalire a marca e modello e sicuramente anche a capire se avevano o no anche la famosa suola a pallini compatibile con le impronte trovate a casa Poggi dopo l’omicidio di Chiara.
Non sarà un lavoro difficile. Il lavoro che appare titanico, anche alla luce di come le parole di Mustafà Etrazi sono state riportate, sarà, invece, quello di capire perché c’è tutta questa nebbia, tutto questo mistero e tutta questa pavida dinamica garlaschese in un momento in cui tutti, ma tutti davvero, dovrebbero giocare a carte scoperte. Non per essere protagonisti o avere un ruolo nell’inchiesta, ma per mostrarsi disposti alla verità, ognuno per la sua verità, così da giungere a una verità più grande. Che risolva e chiuda una pagina, piuttosto che renderla eterna e sempre più dannatamente triste. La grande domanda – senza avere la presunzione di voler fare il mestiere degli inquirenti – non è chiedere a Etrazi se le scarpe trovate avessero o no i pallini nella suola, perché quello – grazie alle foto fornite – potrà essere verificato. La grande domanda, semmai, è chiedere a Etrazi di circostanziare con nomi e cognomi anche chi ha cercato di metterlo in guardia, così da avere la possibilità di porgere a qualcuno un’altra grande domanda: “Perché?”
