Unicredit voleva mangiarsi Banco Bpm con un’ops da manuale, ma si è ritrovata con il piatto bloccato da un Dpcm. Il governo Meloni ha tirato fuori il golden power per fermare l’operazione, invocando la sicurezza nazionale. Andrea Orcel, numero uno di Unicredit, non l’ha presa bene e ha fatto ricorso al Tar del Lazio. La sentenza è attesa per il 16 luglio e promette di fare giurisprudenza: se dà ragione alla banca, il golden power rischia di perdere i denti nel settore finanziario; se vince il governo, Bruxelles potrebbe aprire un nuovo fronte contro Roma. Già, perché la Commissione europea è furiosa: secondo lei solo l’Ue può decidere su fusioni e concentrazioni bancarie. E allora perché Palazzo Chigi ha messo il bastone tra le ruote? Perché considera strategica l’operazione, e quando c’è in gioco la “salus reipublicae” il golden power diventa arma di difesa.

Ma da Bruxelles non ci stanno: temono che l’Italia stia usando la legge per difendere a oltranza il controllo statale sul credito, in barba alla concorrenza. E poi c’è il precedente: è la prima volta che si applica il golden power a una banca, e tutti stanno col fiato sospeso. Se il Tar dà il via libera al Dpcm, scatterà una corsa alle contromisure legali e forse un ricorso alla Corte di giustizia Ue. Intanto i tempi stringono: l’ops di Unicredit si chiude il 23 luglio e, se nel frattempo tutto resta bloccato, la mossa di Orcel rischia di restare lettera morta. Il pasticcio è giuridico ma anche politico: perché non si è cercato prima un dialogo tra governo, banca e istituzioni europee? Negli anni ’90 le grandi fusioni bancarie si fecero senza guerre legali. Oggi invece si parte subito col bazooka. Il risultato? Un corto circuito istituzionale tra Roma e Bruxelles, con la finanza nel mezzo. Il Tar sarà solo il primo round: lo scontro è appena iniziato.
