Il referendum dell’8 e 9 giugno – con i suoi quattro quesiti sul lavoro e uno sulla cittadinanza – non ha raggiunto il quorum. Pazienza. C’è chi ne è felice e chi amareggiato, ma su una cosa possiamo concordare più o meno tutti: le ragioni di questo fallimento sono molteplici e non si possono liquidare in due righe. L’astensionismo ha avuto volti diversi: disinteresse, posizione politica (come quella suggerita dal governo Meloni), o semplicemente disillusione. Ma in un articolo di Rivista Studio si legge: "Per colpa di chi è fallito dunque il referendum? Nello scorso fine settimana, la maggior parte delle Storie che ho visto su Instagram erano foto di tessere elettorali, inviti al voto, cazziatoni per gli astensionisti, previsioni apocalittiche in caso di mancato quorum, infografiche che spiegavano quale quesito corrispondesse a quale scheda di quale colore. È questo lo slacktivism, l'attivismo dei pigri, la politica di chi vede l'orizzonte dentro i social? A chi ci rivolgiamo quando parliamo al nostro smartphone? A quello specchio che sono i nostri follower, quindi a che serve? A niente, visti i risultati". Forse l’editorialista ha avuto un vuoto di memoria, dimenticando che quelle stesse riflessioni sarebbero finite proprio sullo schermo che tanto schernisce. Eppure, i social sono un mezzo di comunicazione potentissimo, e non vanno sottovalutati. A votare sono andate 15 milioni di persone: un numero enorme, anche se in percentuale (circa il 30%) può sembrare esiguo. Tra loro, tantissimi giovani, molti dei quali – per orientarsi in quesiti complessi in un’epoca di soglie d’attenzione bassissime – hanno proprio usato quelle infografiche tanto criticate. Il punto è questo: non è che, solo perché non si vince, parlarne sia inutile. Quante volte abbiamo sentito parlare di questo referendum in televisione o sui giornali? Non abbastanza. Sono stati i cittadini, invece, a tenerlo vivo: sensibilizzando, discutendo, smuovendo coscienze. Non abbastanza per vincere? Forse no, ma questo non significa che sia stato tempo sprecato. Anzi, c’è un aspetto positivo da riconoscere: i social non sono stati usati solo per futilità – come seguire l’ultima borsa di un influencer o le vacanze di qualcuno – ma per informare, spronare, persino semplificare quesiti complessi. Questo non è "attivismo pigro", è presenza attiva, ed è l’esatto opposto di chi si limita a trollare, condividere meme o postare selfie.
Nell’articolo si parla di "bolla": ognuno segue una cerchia ristretta, e così sembra che "tutti" stiano votando. Ma "tutti" non sono mille o duemila persone – bisogna avere una reale percezione della realtà (e, proprio per questo, non è che solo perché dalla tua finestra vedevi poche persone andare al tuo seggio allora nessuno stava andando a votare - anche quella è una bolla). Eppure, non per questo le singole voci valgono meno. Tante gocce creano un oceano; tante bolle, insieme, possono cambiare un dibattito – anche senza raggiungere il quorum. Perché il vero fallimento non è perdere, ma smettere di provarci. "Se una persona indecisa avesse visto quelle storie - no, non le ha viste, è proprio questo il problema, ma concediamolo per ipotesi - cosa avrebbe trovato? Cosa avrebbe pensato? Probabilmente che siamo tutti matti", prosegue l'articolo. Forse avrebbe scrollato via. Forse avrebbe cercato di capire. Forse si sarebbe rivolta proprio a quei "disprezzati" social o al web per informarsi. La verità? Non possiamo sapere perché ogni singolo cittadino abbia scelto di non votare. Ma sappiamo con certezza una cosa: chi ha votato e ha provato a diffondere informazioni sul referendum - spiegando i motivi del sì e del no - lo ha fatto con le migliori intenzioni. E tra quei post, quelle storie, quelle discussioni, qualche lampadina si sarà accesa. Perché la soluzione non è parlare di meno, ma parlare meglio. I media tradizionali hanno già dedicato al referendum uno spazio risicato. Se avessimo taciuto anche sui social, l'affluenza sarebbe stata la metà. I giovani che si impegnano politicamente fanno benissimo a usare gli strumenti che hanno a disposizione. Direi proprio di smetterla con questi discorsi da anziano nostalgico secondo cui tutto è colpa degli smartphone. Pretendere che tutti leggano i testi di legge o i dossier parlamentari è utopico: l'importante è che qualcuno abbia iniziato a porsi domande. E quelle domande, oggi su Instagram, domani potrebbero diventare voto consapevole.
