Si presenta in un video, con molta serenità: sono un milionario. I canali del web che forgiano stelle, improntate, esatte, reali, come certe galassie effimere, di cui si sente parlare leggendariamente in fumetti didascalici e inverosimili. Infrequentabili. Luca Valori ha trent’anni e dice di essere un multimilionario. Assurdo. Una galassia effimera.
Si occupa di immobili, di store, di e-commerce. Le solite brillanti biografie distribuite nel web riferiscono che il suo talento sia stato citato da Forbes e dal Millionaire. Niente di nuovo, il protocollo è uguale a quello in calce ai suoi sodali giovanissimi e sicuri, tanto quanto, di stanza a Dubai. Paurosamente sicuri, aggiungerei. Non riesco ad appassionarmi al ruolo di segugio, nel qual caso, che attenta all’onestà di quanto propalato dal bel giovanotto. Esteticamente corrisponde al canone della gagliardezza. Come se facesse curriculum. Però, ecco, sì. Esteticamente compatibile con la crudele efficacia del cosiddetto vincente. Uno poi che arriva dal basso, pare. Ma mica tanto. Frequenta l’università a Lussemburgo, ma vive molto anche a Roma, fa il cassiere, il magazziniere, il segretario di una scuola. Poi l’exploit nel favoloso mondo parallelo del mercato online.
Per l’esattezza oggi è il mago dello short term. Inglesismi. Dannati. Affitti, in poche parole, in specialmodo affitti di case, subaffitti. Un patrimonio di immobili da paura. Eppure assicura: non mio. In aggiunta raccomanda piuttosto: “Gestite un portfolio, ragazzi, ma di case non vostre”. Come se averne fosse una quotidianità, al massimo sappiamo organizzare un pranzo con la cena, noi schifosissimi travet della porta accanto. Ed è uno strazio continuamente il paragone con questa eccellente masnada di preziosità, perle, ai loro inglesismi opponiamo il teutonico e letterario, nonché crociano: gretchen.
Luca Valori spiega sempre abbastanza in pace con séstesso: “Prendete una casa in affitto a mille euro, subaffittatela su Airbnb a 100 euro a notte”. Bravi. Ed è la sostanziale differenza, dice Luca Valori, tra l’essere poveri (“fa un mutuo per trent’anni e compra una casa in cui vivere, e si indebita per tutta la vita”) e l’essere ricchi (“con venti notti prenotate ha un profitto di mille euro solo da un immobile”). La povertà è un castigo e una sfiga, enuncianciano severi e consapevoli e un po’ sorridenti i professionisti del mindset.
L’inglesismo è una forma volgarissima di snobismo. Lo snobismo de noantri, con un dizionario facile comprato al supermercato: l’inglese che serve. Mindset: mentalità, semplicemente, significa mentalità. Come stare al mondo. Ah signora mia, bella domanda. Paurosamente sicuri, gagliardi, dicevo.
Non ci giurerei. Sono un prodotto, sono la cresta sul modello di vivere disgregato e distante. Sul modello di vivere che oggi urla un diktat, un monito, domani un altro, di solito l’esimio contrario. Sono un prodotto, uno strumento, la versione umana di un cibo da fast food. Fa malissimo, ma circola ovunque, ovunque viene divorato, e alimenta nuove sensibilità, veloci e tradite. Sono un fenomeno, malizioso, come tutti i fenomeni, una cosa tirata su dal web, nata nella placenta dell’età liquida, un mukbang, una deviazione che appassiona nel disgusto, fino a perdere la ragione per cui la medesima appassioni, visto che è la repulsa a prevalere come motivo di dipendenza.
Una qualche specie di dipendenza, come le dipendenze affettive, affettive e tossiche. Il destino dell’uomo, sembrano indicarci gli acerbi mentori del web, è un che da trattario sommariamente, tolto di mezzo l’ingombro del fato, della pesantezza, di tutte quelle quisquilie che da tradizionalisti e poveracci avremmo definito: esigua fiaccola filosofica, o epica, o brutalmente cervello pensante che protende all’inafferrabile. Troppe parole. Non funziona così.