Le elezioni, quali che siano, assomigliano a una conversazione tra amici, nella quale nessuno parlerebbe a vanvera con il rischio di passare da stupido. Si parla se si ha qualcosa da dire e non per evitare di starsene zitti. E si parla se si ha qualcosa di sensato da dire, per modo che quanto più ciò che diciamo è sensato tanto più otteniamo attenzione e miglioriamo la nostra personalità. Allo stesso modo, non si va a votare per adempiere un diritto-dovere, ma per manifestare un atto di volontà personale che valga come mandato di rappresentanza politica: per dire insomma qualcosa di sensato. Se tra dire e tacere è meglio tenere la bocca chiusa quando si rischia di lasciarsi scappare idiozie, tra votare e non votare è preferibile astenersi piuttosto che esprimere una preferenza che sia come lanciare un amo in acqua solo per apparire e sentirsi così un appassionato di pesca.
Se si conosce la pesca da diporto e si sa cosa si vuole allora usare la canna diventa un esercizio appagante e costruttivo. Così se si sa per chi votare e perché votare l'atto acquista un senso anche morale solo se consapevoli dell’azione, altrimenti si finisce per compiere un atto senza significato, e deprimente.
Da molti anni ormai nessuno mi chiede più per chi voterò in vista di una consultazione. Un tempo, fino a metà degli anni Ottanta, noi studenti ci distinguevamo e dividevamo in gruppi secondo non solo il tifo per una squadra di calcio ma in base soprattutto alla fede per un partito politico, anzi per un’idea. L’ideologia era un credo che permeava anche i costumi e plasmava le coscienze.
La marca di jeans e di giubbotti differenziava chi fosse di destra e chi di sinistra. Wangler o Jesus? Eskimo o Loden? Chi studiava francese era di destra o di centro, cioè cattolico, chi preferiva l’inglese era di sinistra. Andando la domenica a messa si affermava un’appartenenza. La fede politica era tradita anche dalla sigaretta che si fumava, se Marlboro o Muratti, e certamente dal quotidiano infilato nella tasca posteriore dei jeans. Persino nel corteggiamento di una ragazza era possibile farsi riconoscere, nonché per l’auto guidata, i cantautori e gli scrittori di elezione, i bar frequentati, le sale-gioco e il gioco stesso, se flipper o carambola, i cinema, i profumi e il dopobarba.
L’ideologia non era un complesso di valori ma un carattere morale. Un ragazzo che non ne avesse una e non fosse schierato era un escluso a rischio di bullizzazione. L’ideologia portava in piazza, fomentava scontri anche fisici, favoriva l’appartenenza a club, ritrovi, raduni, fanzine ciclostilate, corsi di indottrinamento, volantinaggi, gite di istruzione; cementava amicizie, alimentava odi, formava coscienze civili. Chiedere a qualcuno per chi votasse era come ingiungergli di esibire i documenti. Tenere nascoste le proprie intenzioni di voto equivaleva a un infingimento, come provare a non fare sapere di essere gay: la condotta era il chip della personale carta d’identità.
Documento che non poteva essere rinnovato: se si era di destra si rimaneva tali, perché i transfughi erano visti peggio che i qualunquisti. I meno giovani, nutriti dagli ideali molto radicati del tempo, marxisti, cattolici, neofascisti, andavano a votare come scendendo in campo o al pari di muratori che in fila posassero il loro mattone all’edificazione della casa comune. Il voto non era visto né come diritto né come dovere, ma come arma di battaglia. La tessera era portata alla stregua di una coccarda.
I partiti politici erano numerosi ma ideologicamente identificabili, perché ognuno si rifaceva a origini storiche, a correnti filosofiche, a ideologi e teorici fondatori e ispiratori. Partito repubblicano, liberale, socialdemocratico, ma anche Lotta continua, Potere operaio, Avanguardia nazionale, Ordine nuovo, come ancora Fuci, Azione cattolica, Fronte della gioventù, Movimento studentesco non erano sigle sovrapponibili ma precise organizzazioni di raccolta del consenso con propri e inconfondibili elementi distintivi. I leader di partito costituivano il frutto naturale delle loro ideologie di base, perché nati e cresciuti dentro il partito attraverso gli organismi di formazione, quindi con conoscenze teoriche degne di una vera fede.
I governi nascevano su alleanze coerenti, appunto ideologiche, e non sui numeri e sui patti di adesione. I modelli di “compromesso storico” e di “convergenze parallele” promossi da Berlinguer e Moro tendevano a formare maggioranze parlamentari, cioè intese politiche, e non governi ibridi. Ma fu da queste alternative ideologiche e soprattutto dall’aumento delle correnti interne alla Democrazia cristiana che si avviò la desemantizzazione dell’ideologia come propugnacolo e baluardo dei partiti, ognuno con la propria idea di vita, di mondo, di società, di uomo.
Oggi l’ideologia figlia dell’idealità è diventata pragmatismo, derivato della materialità. Ai Moro, ai Colombo, ai Saragat, ai La Malfa, agli Almirante, come anche ai Craxi e agli Andreotti, giganti a vederli oggi (e tali ci appaiono persino Negri, Curcio, Rauti, Sofri: gente di cultura), si sono sostituiti via via i Grillo, i Berlusconi, i Salvini, i Conte, i Di Maio, le Meloni, le Santanché, gente che ha studiato poco e letto ancora meno, quindi senza alcun background ideologico. I loro partiti sono espressione dei loro nomi, che pavesano pure i simboli, e sono privi di ogni retroterra storico. Il solo che abbia una matrice è Fratelli d’Italia, ma è esso stesso a rinnegarla. Gli altri sono nati per partenogenesi, senza fecondazione né storica né ideologica, a esclusione del Pd venuto fuori per evoluzione entropica. La Lega deve la sua presenza a rivendicazioni originariamente territoriali e secessionistiche di un agit-prop senza storia, Umberto Bossi; Forza Italia è debitrice a un cummenda lombardo sofferente di rigurgiti egolatrici; Cinquestelle è l’aborto di un comico abile nel mutare un pubblico in un popolo.
Tutti gli altri, i cosiddetti “cespugli”, sono l’effetto del culto della personalità di figure estemporanee quali Renzi e Calenda, transfughi professionisti. Significativo è diventato il caso di Michele Santoro: invece di fare politica restando giornalista ha scelto di farla diventando politico e capopopolo. Così hanno fatto in passato Angelino Alfano, Maurizio Lupi, Giorgia Meloni, Leoluca Orlando, Antonio Di Pietro. Si cambia partito con l’impudenza di una Caterina Chinnici e secondo logiche alla Vittorio Sgarbi (anche lui un leader mancato con Rinascimento) per il quale conta essere parlamentare e non deputato di un gruppo.
In questi giorni alcuni quotidiani hanno proposto nelle loro piattaforme web un test interattivo inteso a scoprire a quale partito si fosse più vicini. I risultati comprendevano immancabilmente un numero anche di cinque sigle, a riprova degli elementi di comunanza e di confusione tra l’uno e l’altro partito, e le domande vertevano su argomenti concreti, l’Ucraina o la Russia, Israele o Gaza, superbonus o no… Un tempo un simile sondaggio avrebbe sortito l’infallibile indicazione di un solo partito sulla base di domande strettamente ideologiche: tradizione o progresso, liberalismo ostatalismo, spiritualismo o materialismo.
Votare oggi è allora come prendere una carta da un mazzo dal quale qualcuno ci vuole obbligare a pescare. Una vale l’altra. Se provate a chiedere la differenza tra Cinquestelle e Pd la risposta non sarà che una: i grillini volevano il reddito di cittadinanza. Ed è già tanto. Le diversità tra gli altri partiti, anche tra Fratelli d’Italia e Lega o Forza Italia, sono infatti circostanziali, contingenti, improvvisate. Valide il tempo di un disegno di legge. Andare a votare allora perché? E per chi? Se l’astensionismo si aggira intorno al 50%, non vuol dire che gli elettori non vogliono andare alle urne, giacché nella Prima repubblica lo facevano in massa, ma che non sanno per chi votare e perché farlo. Sanno che un partito senza ideologia è come un albero senza radici e senza storia, come un uomo che ha perso la memoria.
Il fenomeno è spiegato scientificamente dalla teoria cosiddetta dell’asino di Buridano, che di fronte a troppe biade non mangia perché non sa scegliere e resta digiuno finché muore. Chi ci ha messo davanti troppi piatti coperti e pressoché uguali non può aspettarsi che prendiamo quanto non conosciamo, perciò si faccia carico della morte lenta e inesorabile del corpo elettorale italiano.