Si sono lasciati esattamente un anno prima delle elezioni e la Lega ne ha pagato le conseguenze: 23 settembre 2021, lo scandalo del festino a base di sesso e gbh – la cosiddetta droga dello stupro – in un cascinale di Belfiore, nel Veronese, coinvolge e travolge Luca Morisi, consigliere strategico per la comunicazione di Matteo Salvini, che quel giorno abbandona l’incarico. Lui, l’uomo della Bestia, il re Mida dei più biechi istinti social della pancia del Paese ingoiati, ruminati e digeriti per essere espulsi sui canali di comunicazione del leader della Lega. Lui, lo spin doctor che sul suo profilo Twitter si definiva “social-megafono, mi occupo quasi 24×7 della comunicazione per il Capitano”, quel Capitano poi diventato ministro, quindi scivolato dal cubo del Papeete, rialzatosi grazie a lui e che ora non ne azzecca una – l’ultima, clamorosa, qui, riuscendo a far minacciare querela pure Ligabue, ma la visita alla frontiera tra Polonia e Ungheria rimane epocale – e cala nel gradimento, giorno dopo giorno.
Ah, da quando Morisi non twitta più non è più 30% o giù di lì, nemmeno da lontano, e anzi, con le elezioni del 25 settembre, lo spettro di una Lega addirittura sotto il 10% (e per il leader Salvini è un disastro) si è concretizzato.
Non che basti la comunicazione, ma Salvini non è diventato un politico migliore: quello era nel 2019 – quando i sondaggi lo accreditavano del 34%, lui invocava i pieni poteri e la Bestia era ministeriale – e quello è oggi, eppure il team comunicativo della Lega non è riuscito a intercettare gli umori dell’elettorato di riferimento, almeno non con lo stesso ritmo e non con la stessa efficacia di prima, superato a destra da Fratelli d’Italia e da una Meloni che gli ha strappato, su temi spesso non dissimili ma con uno stile urlato e posseduto, una significativa fetta di potenziali elettori.
Certo, stare all’opposizione come ha fatto Fdi in tutta la legislatura e poter sbraitare e promettere senza essere costretti a fare – mentre nel Governo Draghi c’era anche la Lega, così come nel Conte I – paga sempre, ma poter contare o meno sulla competenza abile di Morisi – nel frattempo uscito dall’indagine dopo la richiesta di archiviazione – nell’ideare strategie, seguire gli algoritmi e prevedere i trend, guidare un team (alcuni dei suoi collaboratori sono rimasti nello staff, ma senza di lui al timone, mentre il sodale Andrea Paganella è oggi capo della segreteria di Salvini) e capovolgere situazioni sfavorevoli spiega in parte la differenza tra l’afflato leghista di allora e le difficoltà odierne. Quello del 34% potenziale era il Salvini di Morisi, quella del 15% è la Lega a prescindere dal leader e, a dispetto del denaro speso in sponsorizzate social (15 mila euro, solo dalla pagina Matteo Salvini, nella settimana 16-22 marzo, secondo i dati di Meta, oltre 600 mila da marzo 2019), il calo delle interazioni si calcola nell’ordine delle decine di migliaia. Recentemente avrà anche aumentato l’aggressività dei toni – ma anche qui: lo slogan “Credo”, a maggior ragione utilizzato con l’hashtag dopo un tweet assertivo, è probabilmente uno dei più insignificanti dell’intera campagna elettorale, ben poco morisiano – ma senza idee forti serve qualcuno che diriga il nulla su qualcos’altro, per artefatto che sia, e che sappia farlo con la maestria del genio del male.
Qui entra in gioco l’altro punto. Sputtanamento per sputtanamento, Morisi è rimasto vittima del moralismo ipocrita che la Bestia stessa ha veicolato a vagonate contro gli avversari di turno. Salvini ha reagito con enorme difficoltà, definendolo un “amico che sbaglia”, sostanzialmente costretto ad azzopparsi pur di dover assecondare la morale fatta agli altri in precedenza. Non che sia mai stato un campione di coerenza, il Capitano, ma andare a curiosare nei letti degli altri costringe a guardare anche i propri quando accade lo scandalo, scandalo che magari nemmeno esisterebbe se si lasciassero in pace le preferenze sessuali e i vizi di chiunque, ovviamente in assenza di reati. E del resto, per non essere accusata di doppia morale, la Lega ha finito per lasciare da solo Morisi proprio mentre a fare i bacchettoni si mettevano le beghine del puritanesimo – e sin qui niente di strano, tralasciando la puzza di stantio – e persino, in un cortocircuito più che singolare, i progressisti che, godendo nell’assistere alla caduta dello spin doctor salviniano nella sua ipocrisia, hanno ragionato con i suoi stessi schemi andando di fatto a stigmatizzare ciò che accadeva tra le sue lenzuola. Quello che, a MOW, il segretario generale di Arcigay, Luca Piazzoni, ha definito “un ritorno ai titoli di trent’anni fa sul torbido mondo omosessuale”.
Perché il moralismo fa danni alle persone, infetta la società, imputridisce i rapporti e svuota di senso i temi della politica; è un’arma di distrazione feroce, facile e incisiva. Morisi, indifendibile, lo sapeva bene, ne ha intriso la comunicazione di Salvini – le sue Madonne, i suoi rosari e mille mari, eia alalà; e infatti ora se ne giova la Meloni – e ne è rimasto vittima. Bingo: l’inventore della Bestia ha perso il suo ruolo di agitatore, la Lega il suo intercettore del sentimento popolare e lo sconterà alle elezioni. Dei due non ci ha guadagnato nessuno, perché il destino dei farisei è quello: l’atteggiamento può funzionare, ma alla lunga la storia del più puro che ti epura è una realtà se la prassi è quella di rovistare nel privato e giudicare – quando mancano profili penali, meglio ribadirlo – le scelte degli altri sulla base dei nostri bias o, peggio ancora, per meri fini di bottega. Strateghi, ne vale la pena?