In politica una settimana è un secolo, un anno è un millennio, e dieci anni un’era glaciale. Ma su tutto, su qualsiasi materia? Va bene sui temi correnti o sulle alleanze, ma pure sui fondamentali, per esempio il modo in cui è articolato e organizzato lo Stato, la sua architettura, l’idea stessa di Italia, dal punto di vista istituzionale? Il partito-guida della maggioranza che è al governo, Fratelli d’Italia, ha messo in cima alle priorità il presidenzialismo, storica bandiera della destra fin dai tempi del Movimento Sociale Italiano. Una coerenza granitica, su questo, non c’è dubbio. Ma ora, espugnato Palazzo Chigi con un programma in cui la Lega ha avuto il suo peso, spinge anche per la cosiddetta autonomia differenziata, che consisterà in una legge fatta per consentire alle singole Regioni (Veneto di Luca Zaia in testa) di negoziare con Roma gli spazi e le competenze da trasferire dal centro alla periferia, dallo Stato nazionale agli enti regionali. Per di più, il ministro delle riforme, il salviniano Roberto Calderoli che si sgola da mane a sera per negare che fra i due progetti, presidenziale e autonomista, vi sia una concorrenza interna, da mesi lavora per ripristinare le elezioni per le Province, su pressione in special modo di Forza Italia. È un fatto, però, che l’iter per l’autonomia sia stato calendarizzato, almeno come percorso intenzionale, con tempi molto lunghi, ed è un altro fatto che tra i meloniani non abbondino le dichiarazioni d’entusiasmo sull’argomento.
Sarà mica che Fratelli d’Italia sta trangugiando il sogno tutto leghista come si fa con la proverbiale amara pillola, magari indorandola di buone intenzioni che mascherano l’opposto, cioè il sovrano e aperto disgusto? Andando a spulciare gli atti parlamentari e certe uscite della stessa Meloni di qualche anno fa, si direbbe proprio che sia così. Il 5 marzo 2015, la futura premier sentenziava: “Serve una nuova architettura dello Stato, perché il regionalismo è stato un fallimento e ha prodotto molto spesso solo corruzione e burocrazia. Nel 1970, quando si stavano disegnando le Regioni sulla base del compromesso tra Dc e Pci, Giorgio Almirante lo aveva ampiamente previsto e aveva denunciato che la spesa pubblica sarebbe andata fuori controllo. Dopo 45 anni, possiamo dire che è andata proprio così”. Il capo di Fratelli d’Italia, allora una piccola forza al 2%, parlava ad un convegno promosso dal gruppo alla Camera del partito a Palazzo San Macuto. L’occasione serviva a presentare un disegno di legge, ispirato esplicitamente dalla Società Geografica Italiana e da alcuni costituzionalisti e urbanisti, in cui si voleva, come specificò Fabio Rampelli, oggi vicepresidente a Montecitorio, la “cancellazione delle Regioni”. La Meloni era altrettanto chiara: FdI aveva “trasformato in proposta di legge lo studio della Società Geografica Italiana per abolire le Regioni”. E già che c’erano, abolire anche le Province (eliminate proprio quell’anno dalla riforma Delrio), insomma tutto il “coacervo di sovrapposizioni legislative, burocratiche e amministrative che crea una struttura statale pesante e iper-burocratizzata”, come si legge nella pagina di giorgiameloni.it dedicata all’evento. Altro che autonomia, differenziata o no che sia: le 20 Regioni non dovrebbero esistere e basta, secondo il Meloni-pensiero di otto anni or sono (ma proseguito fino a non moltissimo tempo fa, viste le non poche volte in cui FdI ha mostrato di subìre il traino del Carroccio, in Lombardia e Veneto).
Si era sotto il governo Renzi, nel periodo del referendum costituzionale che fu perso dall’allora segretario del Pd. Il testo legislativo targato FdI, nel quale, sottolinearono gli ideatori, si prevedeva “la soppressione di 16 mila enti intermedi” con “un risparmio di 1 miliardo e 300 mila euro”, era stato portato in parlamento l’anno prima, con Enrico Letta premier, per la precisione il 15 gennaio 2014. La proposta, dal titolo “Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione in materia di soppressione delle regioni e delle province e di costituzione di trentasei nuove regioni”, fu nel dettaglio un’iniziativa di Edmondo Cirielli e, appunto, di Giorgia Meloni. I due, nell’introdurla, a proposito di quella che oggi è diventata, presumibilmente obtorto collo, anche una loro battaglia, erano di una freddezza tombale: “ll cosiddetto «regionalismo differenziato» ha generato una proliferazione di enti territoriali intermedi a «geometria variabile», appesantendo ulteriormente l’iperterritorializzazione della maglia amministrativa, con frequenti sovrapposizioni di competenze territoriali e con moltiplicazione delle disfunzioni della pubblica amministrazione, tali da rendere difficoltosa la garanzia di standard adeguati e finanche minimi dei servizi”. Tradotto: il decentramento varato dal centrosinistra nel 2001 si è rivelato un flop clamoroso, perché anziché snellire, semplificare e tagliare spese, ha ottenuto il risultato contrario. E non assicura lo stesso trattamento a tutti i cittadini in tutte le parti d’Italia (che è precisamente l’accusa che adesso si rivolge all’autonomia inserita nel pacchetto di riforme del governo Meloni).
Ma esattamente a rovescio della Lega, anziché chiedere più decentramento, più regionalismo e più autonomia, Fratelli d’Italia tagliava la testa al toro: cambiando vari articoli della Costituzione, via le Regioni, vie le Province, e addio perfino alle Regioni a statuto speciale. A rimpiazzarle, 36 “distretti”, alcuni dei quali nuovi, ma con un sapore antico fin dal nome: “Tirrenia” (la parte costiera della Toscana, con un po’ di Liguria), “Etruria” (il resto della Toscana tranne Firenze e circondario), “Daunia” (Foggia, Gargano, Benevento), il Salento per i fatti suoi, la Ciociaria, l’Insubria, la Sicilia divisa in tre, l’Emilia e la Romagna staccate, la Campania separata da Napoli e dintorni, il Veneto orbato di Verona (accorpata a Brescia e a Mantova), naturalmente “Roma capitale”, e via così. Non solo, ma quanto ai famosi Lep, i livelli essenziali di prestazioni a garanzia di diritti e servizi sociali un minimo uguali nell’intero Paese, Meloni & C intendevano modificare anche l’articolo 120 della Carta dando ancor più forza allo Stato centrale (e non più “solo” al governo), che si sarebbe potuto sostituire alle Regioni anche nel loro potere di legiferare. Di autonomismo, nessuna traccia. “Le riforme costituzionali non rallenteranno l'autonomia differenziata. Se si arenasse, abbandonerei la politica”: Roberto Calderoli, 15 maggio 2023. Può star tranquillo, il ministro Calderoli: in Italia si fa sempre in tempo a cambiare idea, facendo finta di niente, ché tanto la coerenza, in politica, pare sia la virtù degli imbecilli. Meloni docet. Chissà allora di chi sarà, la “manina” che ha preparato, e fatto poi pubblicare sul Linkedin ufficiale del Senato, uno studio iper-critico verso l’autonomia differenziato, tolto in fretta e furia dopo poche ore. Banale svista, o a qualcuno è scappato un segnale di fumo, negli uffici di Palazzo Madama?