Il 16 marzo scorso la proposta di legge sulla cosiddetta autonomia è stata approvata all’unanimità dal Consiglio dei Ministri, che ora si appresta ad affrontare l’iter per il voto finale in parlamento. Un’unanimità, si badi, che non è detto resterà tale visto che all’interno della maggioranza di centrodestra tutti, è vero, concordano (almeno apparentemente) sulla meta finale, o se si vuole sull’obiettivo di facciata, ma poi, passando alla traduzione pratica, le idee già divergono. Per cominciare, però, cerchiamo di capire di cosa stiamo parlando. Le “Disposizioni per l'attuazione dell'autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario”, detta più sinteticamente riforma Calderoli, dal nome del ministro leghista che l’ha preparata e la sta seguendo passo passo, corrisponde in sostanza al decentramento di competenze “concorrenti”, cioè suddivise, fra Stato e Regioni. Queste ultime, legiferando per conto proprio su determinati settori, diventerebbero più autonome dallo Stato in diversi ambiti, e questa diversificazione tra le Regioni spiega perché l’autonomia si dica “differenziata”. Attualmente, dopo la riforma semi-federale del Titolo V della Costituzione voluta dal centrosinistra nel 2001, le Regioni sono già autonome nella gestione della sanità (che mediamente costituisce i due terzi e oltre dei bilanci regionali).
A tutt’oggi le materie “concorrenti” sono i rapporti internazionali e con l'Unione europea, il commercio con l'estero, l'istruzione, la tutela della salute, l'alimentazione, lo sport, i porti e gli aeroporti civili, le grandi reti di trasporto e di navigazione, la comunicazione, l'energia, la cultura e l’ambiente. L’elenco si trova nell’articolo 117 della Carta costituzionale. Già sul piano dei contenuti, i detrattori fanno presente che fra esse ci sono competenze strategiche, come la scuola, l’energia, i trasporti e l’ambiente, che sarebbe politicamente pericoloso passare nelle mani degli enti regionali. Per dire: programmi scolastici differenti a seconda del punto geografico, oppure politiche in ordine sparso sugli approvvigionamenti energetici, o ancora, standard divergenti sulla difesa ambientale, porterebbero a una situazione caotica, in un Paese già di suo tendente al disordine creativo. Senza contare gli effetti pratici sul reclutamento e le retribuzioni del relativo personale pubblico, insegnanti in primis per ciò che riguarda l’istruzione.
La riforma si basa sulla possibilità di riconoscere “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”, diritto sancito all’articolo 116 della Costituzione. L’altro, e ancor più grosso problema politico investe proprio il tema delle condizioni alle quali attenersi per non sfasciare, di fatto, l’unità nazionale. E qui la parola-chiave da comprendere è una sigla, “Lep”: Livelli Essenziali di Prestazione. Sono gli standard minimi di diritti sociali e servizi al cittadino che devono essere garantiti sull’intero suolo nazionale. Una volta definiti questi, le Regioni potranno chiedere allo Stato la gestione delle diverse materie. Il testo non specifica quali saranno quelle in cui si potrà adottare l’autonomia per la singola Regione, dando così un’ampia libertà di proposta ai governatori. Il disegno di legge prevede un anno di tempo entro il quale il governo dovrà definire i Lep, ma dà anche la possibilità alle Regioni di giungere a un’intesa con lo Stato prima che i Lep siano stabiliti, facendosi sì che i corrispettivi finanziari delle competenze passate alle Regioni siano calcolati sulla base della spesa storica.
Sul criterio della “spesa storica”, che logicamente avvantaggia il più ricco Nord rispetto alle Regioni del Sud, il centrodestra è diviso: Forza Italia vorrebbe superarlo, condizionando l’approvazione della riforma alla definizione e al finanziamento dei Lep. Il timore è che l’autonomia differenziata spacchi il Paese e possa generare altro debito pubblico. All’articolo 9 il disegno di legge, infatti, affronta il nodo critico delle “misure perequative”, ovvero del fondo da cui trarre le risorse finanziare per correggere gli squilibri fra Nord e Sud. Lo hanno fortemente voluto non solo le opposizioni, ma anche parte della maggioranza di centrodestra e Confindustria. Su quest’ultimo punto, l’articolo 8 afferma che da questa riforma "non derivano nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”. Ma si sa che in Italia non c’è cosa più aggirabile delle leggi. Anche il partito egemone della maggioranza, Fratelli d’Italia, sembra freddo, comunque: si scalda sicuramente di più per la sua riforma di bandiera, che è il presidenzialismo, anziché per il vessillo storico della Lega (che pur essendo stata al governo quattro volte negli ultimi vent’anni, è ancora qui che ci prova). Lo scorso settembre, in campagna elettorale, il presidente di Regione più accanitamente impegnato a favore dell’autonomia, il leghista veneto Luca Zaia, aveva dichiarato: “L’autonomia vale anche la messa in discussione di un governo”. Magari non fino a questo punto, ma senz’altro la materia potenzialmente esplosiva di cui è fatto il ddl Calderoli può creare fibrillazioni di una certa gravità, fra gli alleati. Insomma, grane per la Meloni.