A volte basterebbe aprire un microfono per riscrivere pezzi di storia, anche se il condizionale è obbligatorio perché, vuoi o non vuoi, la verità in questi casi è dura da raccontare. Nell’ultima puntata di Pulp, il podcast di Fedez e Marra c’è Antonio “Nino” Mancini, noto nell’ambiente come “Accattone”, a raccontare i frammenti di un passato ancora oggi sepolto da qualche parte, che siano i sotterranei del Vaticano o quelli di qualche Ministero. Nino Mancini non è un nome qualunque. È uno degli ex membri di spicco della Banda della Magliana, la più potente organizzazione criminale mai esistita a Roma tra gli anni '70 e '90. Dopo una vita nell’illegalità, fatta di rapine, omicidi e alleanze pericolose, Mancini ha scelto di collaborare con la giustizia, diventando uno dei pentiti che hanno permesso di squarciare il velo sulle dinamiche interne della Banda. Una vita trasformata: carcere, pentimento, reinserimento sociale, fino al lavoro come accompagnatore per disabili a Jesi. Ma i fantasmi del passato non spariscono. La Banda di cui ha fatto parte Mancini sfiora molti dei grandi crimini ancora irrisolti: su tutti, l’omicidio di Pier Paolo Pasolini e la scomparsa di Emanuela Orlandi. Si parte però con le polemiche sul libro e sul film dedicati alla Banda della Magliana, che a Mancini non sono piaciuti. Il personaggio ispirato a lui, infatti, in Romanzo Criminale aveva il nome di Ricotta.

“La storia di Ricotta: se uno non sa la storia pensa che il personaggio sia un pappamolle”, dice Mancini riferendosi al personaggio ispirato a lui in Romanzo Criminale. Una semplificazione cinematografica, utile allo spettacolo, ma lontana dalla realtà di sangue, affari e doppiezze vissute in prima persona. Tra i momenti più forti dell’intervista, emerge il nodo irrisolto dei legami tra la Banda e il Vaticano. “A me i soldi piaceva magnarmeli. De Pedis invece pensava di arrivare a sventolare l'aspersorio, o a qualche sottosegretariato”, racconta Mancini. Fa riferimento a Enrico De Pedis, altro membro storico della Banda, noto per l’inquietante sepoltura nella cripta della basilica di Sant’Apollinare. “Lui ha fatto i morti e le rapine con me, ma è morto da incensurato”, commenta amaramente Mancini, svelando come fosse proprio lui, nel 2005, a collegare per la prima volta pubblicamente la tomba di De Pedis alla Magliana, in un’intervista al Corriere della Sera. “Nessuno ci ha dato peso, nemmeno i magistrati, finché non è arrivata la televisione con la Sciarelli.” Tutto, dice, parte dai soldi. E i soldi, nella Roma di quegli anni, passavano anche dal Banco Ambrosiano e dallo IOR, l’Istituto per le Opere di Religione, la cosiddetta “banca del Papa”. “De Pedis e Carminati volevano arrivare a ripulirsi del tutto”, racconta. “Quindi davano questi soldi al Banco Ambrosiano con l'impegno di riprenderli con gli interessi, ma non c'era nessuna carta firmata.”

Quando Fedez gli chiede se lo Ior li avesse poi scaricati, la risposta è cruda: “Esatto, loro dicono: c'è Rosone che ce lo impedisce, quindi che fanno? Ti dicono: guarda, Peppe ci mette i bastoni tra le ruote, mettendo per implicito che bisognava farlo fuori”. Da qui il collegamento con il mistero più oscuro d’Italia: la sparizione di Emanuela Orlandi. Fedez incalza: chi sta mettendo i bastoni tra le ruote alla verità? Lo Stato? La Chiesa? Ma qui, per la prima volta, Mancini si blocca: “Guarda, Federico, io non ho problemi a rispondere a niente, però qui mi fa male allo stomaco. Per dire questa cosa mi devo consultare prima col mio avvocato.” E una sola certezza: “Renatino De Pedis non l’ha uccisa di sicuro, perché lui voleva arrivare in alto, non aveva il minimo interesse a farla fuori.” Il discorso vira anche su Papa Giovanni Paolo II. Fedez cita alcune indiscrezioni sul pontefice che di notte usciva di nascosto dal Vaticano. “E che il biografo dice pure che se scop*va i ragazzini? Ma su, mancava la cocaina ed era Papa Belushi”, risponde Mancini, tra l’ironico e il tragico. Poi torna alla concretezza: “Neroni era un ammorbidente, un criminale vecchio stile che risolveva tutto a cazzotti, e De Pedis lo mandava in giro a recuperare soldi.” Mentre la conversazione si fa sempre più cupa, emerge anche un dettaglio inedito sulla morte di Pier Paolo Pasolini. Una storia di biscotto, termine romano per indicare una mediazione semi-legale per il recupero di beni rubati. “A quei tempi a Roma c’era un reato chiamato biscotto. Se ti rubavano la pipa, tu andavi a denunciare e il poliziotto scriveva: ma a me che caz*o me frega della tua pipa. Allora conveniva andare nelle borgate, offrire qualcosa e vedere se ti ritrovavano la pipa.” Secondo Mancini, Pasolini non è stato ucciso per un delitto passionale, nè per oscure trame geopolitiche in cui c’è di mezzo la Nato, ma tutto fu una conseguenza del furto delle pizze del film Salò. Pasolini, secondo Mancini, avrebbe tentato la via del biscotto per recuperare il lavoro trafugato. “Pelosi voleva fare il biscotto a Pasolini, l’accordo era: portatemi le pizze e vi do 5 milioni. Poi quella sera sono arrivati, e non avendo le pizze hanno preso a bastonate Pasolini.” Quando Fedez gli chiede perché le indagini furono gestite in maniera così superficiale, la risposta è semplicissima: “Perché non gliene fregava niente di Pasolini, si erano levati un nome pesante di torno.”
