“Che cosa si può fare, oltre ad arrabbiarsi e a dissociarsi, avendo cura di non offrire il minimo appiglio dialettico ai teppisti per giustificare il loro odio iconoclasta, di cui si pentiranno tra vent’anni in qualche intervista?” Massimo Gramellini sul Corriere della Sera. “Certo fanno incazzare i teppisti che sfruttando l’immagine dei bambini affamati di Gaza mettono a ferro e fuoco la stazione di Milano, bloccano Roma e mezza Italia. Ma prima ancora che incazzare fanno pena” Tommaso Cerno su Il Tempo. “La marmaglia rossa scende in guerra dal mattino nel giorno dello sciopero generale” Massimo Sanvito su Libero. “La feccia che ieri abbiamo visto all’opera è ineliminabile, ogni società produce scorie che al massimo può provare a gestire come hanno fatto ieri le migliaia di uomini delle forze dell’ordine impegnate sul campo per contenere l’onda d’urto (circa sessanta di loro sono rimasti feriti negli scontri)” Alessandro Sallusti su Il Giornale. “La loro manifestazione gli è stata rubata (ed è successo infinite altre volte) dai bruciatori di bandiere e dagli sfasciatori di città, agonisti dello scontro ai quali, degli altri manifestanti e delle loro ragioni, importa un fico. […] La proporzione tra i ladri di corteo e i derubati è, ad essere generosi con i ladri, uno a dieci” Michele Serra su La Repubblica. “Per dirla con Morucci, è la peggio gioventù, pronta a usare qualsiasi causa e strumentalizzare qualsiasi movimento” Maurizio Belpietro su La Verità.

Teppisti, feccia, marmaglia rossa, sfasciatori di città, ladri di corteo, la peggio gioventù (un riferimento al terrorismo brigatista). Basterebbe questo per capire quanto il giornalismo sia ormai completamente scollato non solo dalla realtà, ma dalla cultura. Al punto che forse i veri teppisti, i veri vandali, gli sfasciatori di giornali, sono loro. Alcuni sono persino di sinistra, ma di quella sinistra che pare aver completamente bypassanto qualsiasi cosa scritta dalla sinistra tra gli anni Sessanta e oggi. Dai libri del rogo di Toni Negri a In Defence Of Looting di Vicky Osterweil, scritto nei mesi in cui i Black Lives Matter distruggevano e, appunto, saccheggiavano le città. E poi, come ci ha ricordato Luigi Mangione, quella rabbia antisistema elaborata more geometrico (cioè con rigore logico e matematico) da Theodore Kaczynski, Unabomber. Non si tratta di comprendere, tollerare o appoggiare questa violenza, ma di capirla prima di criticare. Per fare un esempio ancora più chiaro. È evidente che la guerra sia brutta, ma la guerra andrebbe compresa, altrimenti cosa vuoi criticare (lo sosteneva, per esempio, un filosofo lontano da qualsiasi forma di estremismo, che si autodefiniva piuttosto dolce e, talvolta, pigro, Jean Guitton)? Allo stesso modo, condannare la violenza è legittimo, e potrebbe persino essere tanto ovvio quanto condannare la guerra, ma nondimeno andrebbe prima compreso ciò che accade.

Il problema è che invece manchiamo completamente di capire il perché di questa violenza, come ci fu al G8 di Genova. Il punto, per chi commette questi atti, è dimostrare che le città, se vogliono, sono ingovernabili. Non tutto è “ordine e disciplina”, non tutto concorre a realizzare la distopia di Un cittadino al di sopra di ogni sospetto. La violenza per la sinistra non è “spacchiamo tutto” o “andare contro la banca che è simbolo di ricchezza”, come alcuni credono. Questi gesti sono un modo per dire che esiste una versione alternativa di questo mondo, in cui la violenza non è monopolio di chi comanda, ma è distribuita, diffusa, inarrestabile. Questo dovrebbe essere un concetto, per quanto marxista, comprensibile anche a tutti quei liberali e libertari che per esempio giustificano il possesso di armi in Usa in nome della libertà di difendersi dallo Stato (e che, in questi giorni, difendevano le idee di Charlie Kirk). Chiaro, poi, che questa violenza possa essere condannata e che questa visione possa essere considerata fallimentare. Per dirne una, ciò che attaccano è tendenzialmente la proprietà di qualcuno (o la proprietà dello Stato, obbrobrio giuridico di cui in futuro la nostra società renderà conto a società ben più evolute) su cui i militanti non hanno alcun diritto. Ma è inutile pensare che questa violenza sia semplicemente un’esternazione di sentimenti violenti. Semmai, è un'esternazione di concetti violenti. Possono non piacere, ma vanno compresi.

In riferimento al ’77 romano, il filosofo Paolo Virno scriveva: “Noi li abbiamo messi sotto una pressione sociale, politica e culturale dalla quale ancora adesso stentano a riprendersi. Noi abbiamo esercitato potere sulle loro vite mettendoli in condizione di non nuocere. Allora si allargò la capacità di decidere alternativa a quella dei padroni e dello Stato in ogni anfratto dell’organizzazione sociale, che si trattasse del quartiere, del reparto di fabbrica, della scuola, dell’università e persino talvolta dell’esercito. A comandare spesso eravamo noi. Mai una generazione ha esercitato tanto potere sociale e per così lungo tempo. Mai quelli che di solito incutono paura hanno avuto così tanta paura per se stessi, per le loro abitudini, per i loro lussi, per i loro usi e costumi. Raramente è capitato di incutere tanta paura a chi abitualmente per mestiere, e per natura, intimorisce il prossimo, intimorisce chi sta sotto, intimorisce chi lavora”. È la stessa posizione del fisico Franco Piperno, che ricordava la “terribile bellezza” del 12 marzo 1977: ciò che si ottenne (o si credette di ottenere) era “una autonomia irreversibile dalle istituzioni statuali che è penetrata nel senso comune e si esprime nella determinazione manifesta di rompere il monopolio statale della violenza per praticare, in forma finalmente scoperta, la legittima difesa, fosse anche tramite l’uso delle armi. Gli fa eco uno dei testi fondamentali di quegli anni, uno dei “libri del rogo” del professor Antonio Negri, Dominio e sabotaggio, effettivamente molto difficile se non, a tratti, astruso (e forse Negri se ne compiaceva): “La violenza è un elemento della razionalità dei processi di autovalorizzazione”. Oppure: è la “scoperta della razionalità dello sviluppo del lavoro vivo contro la morte del capitale”. E avvertiva i compagni marxisti: “L’ipocrisia non paga. E allora parliamone con chiarezza della violenza proletaria come di un ingrediente necessario, centrale del programma comunista”. Per dirla con un frammento, il 179, del Manifesto di Unabomber: “Sarebbe meglio abbandonare questo sistema marcio e prendersi le conseguenze di un cambiamento”.

Abbiamo citato anche Osterweil, che scrive oggi e non cinquant’anni fa e che pare rispondere proprio ai nostri giornalisti di esperienza: “Ridurre il saccheggio e la rivolta a una questione di criminalità, chiamare il saccheggiatore ‘solo un ladro’ […] serve a mascherare il contenuto liberatorio dell’azione in corso. Nel pieno dell’insurrezione, sia gli spettatori sia i partecipanti iniziano a mettere in discussione l’ideologia che sostiene la proprietà e la merce, l’ordine e la legge. In questo senso, il saccheggio rappresenta una minaccia fondamentale per una società ordinata secondo la supremazia bianca, una minaccia che spesso va oltre i confini entro cui gli attivisti o persino i rivoluzionari autoproclamati si sentono a proprio agio”. Ancora una volta, mentre Osterweil, Negri, Piperno, Virno & Co giustificano, per noi, che non concordiamo, si tratta semmai di comprendere. E dunque di leggere questi e altri autori. Invece ci impegniamo a essere così politicamente corretti, sia a destra che a sinistra, da ignorare completamente il significato degli eventi, concentrandoci nemmeno sulla pura cronaca (ci vuole ad esempio il coraggio di Libero per definire “marmaglia rossa” decine di migliaia di civili, comprese famiglie con bambini, anziani, democratici, moderati e non violenti), ma sulla disinformazione, sulle astrazioni puritane e moraliste. Editoriali e corsivi privi di contenuto per descrivere un fenomeno che non abbiamo imparato a riconoscere, quello che contrappone alla tolleranza che abbiamo nei confronti della violenza che si subisce, un’intolleranza politica, estremista, che non cerca il compromesso. E noi li chiamiamo teppisti, riducendo quanto accade a un fenomeno da cortile scolastico. Ancora una volta, rifiutiamo di guardare in faccia la realtà. Anzi, la distorciamo, la imbrattiamo con condanne preventive che ci fanno meritare un posto in paradiso (e cioè, in questo caso, una colonna su un giornale), la sovrascriviamo con vernici che sanno di manifesta ignoranza. Allora forse teppista non è chi distrugge la Stazione centrale di Milano, ma chi scrive per insegnare, giudicare, senza aver capito prima.
