Il ristorante di Carlo Cracco in galleria a Milano è in crisi, al punto che pare abbia maturato debiti di 4,6 milioni di euro in cinque anni. Certamente non possiamo definire un buco del genere un successo. Intanto, nella cucina italiana, lentamente ma inesorabilmente, si staglia l’ombra della carne sintetica e degli insetti. Così, per raccapezzarci tra chef stellati indebitati fino al collo e nuove frontiere della cucina, abbiamo chiesto dove andremo a finire al temutissimo Valerio Visentin, critico gastronomico (mascherato) del Corriere della sera. Stiamo assistendo alla fine di un'epoca?
Il ristorante di Carlo Cracco è pieno di debiti, ti stupisce?
Non mi stupisce, perché ce lo aveva già detto Report in un servizio di Luca Bertazzoni dello scorso febbraio. Ma non era difficile indovinarlo, visto che su quei bilanci pesa un affitto annuo di oltre un milione di euro.
Come si può risollevare?
Ah, non saprei. Con quelle premesse non si va lontani. Ma non c’è da preoccuparsi per Cracco. È un uomo intelligente ed è, ormai, un personaggio pubblico. Etichetta che va ben oltre il confine della ristorazione. È noto in mezzo mondo. Ha raccolto successi televisivi. È stato ingaggiato per campagne pubblicitarie di alto peso specifico. Il ristorante in Galleria lo vedo male. L’azienda Cracco, però, si risanerà.
Siamo di fronte alla fine di un’epoca?
Non c’è dubbio che il divismo degli chef stia perdendo colpi. E anche questa non è una sorpresa. Quell’immaginario nazional popolare è stato sfruttato fino all’osso dalla televisione e dal web. Ma resterà in piedi finché farà comodo agli sponsor. Che poi sono sempre gli stessi, dalla Nestlé in giù.
Anche il Geranium di Copenaghen ha cambiato rotta…
Mi pare sia un caso differente. Lo chef Redzepi è l’alfiere di un estremismo gastronomico che sfiora il fondamentalismo. E che non ha alcun futuro commerciale. Sono stati molto abili a sfruttare i meccanismi del marketing, issandosi in vetta al The World's 50 Best Restaurants, decantata, ma discutibilissima classifica della Nestlé, tanto per cambiare. Anche in occasione della sbandierata svolta sono stati bravissimi a vendere una notizia vera per metà. I giornali hanno parlato di imminente chiusura del Noma, mentre ci sarà soltanto un cambio di rotta e, per di più, nel 2024.
Gli italiani vogliono ancora spendere certe cifre per provare quel tipo di esperienza?
C’è e ci sarà sempre una potenziale clientela danarosa che apprezza quel tipo di ristorazione e ha i quattrini per permettersela. Italiani e turisti in parti uguali, secondo i dati statistici. Ma il problema è il rovescio della medaglia. Quel modello aziendale non è economicamente sostenibile. I ristoranti di alta fascia consumano come delle Ferrari e arrancano come delle biciclette in salita. La Michelin e la critica gastronomica in genere dovrebbero farsi carico del falso mito che hanno alimentato in questi ultimi quindici anni, promuovendo un miraggio collettivo. Può darsi che la cucina raggiunga vette artistiche, in qualche raro caso. I ristoranti, però, non sono musei: sono imprese commerciali.
Carne sintetica e insetti, in arrivo sulle nostre tavole, prima o poi, stravolgeranno di nuovo tutto, comprese le tradizioni?
Non tirerei in ballo tradizione e identità: termini svuotati di contenuti. Ma è vero che, in entrambi i casi, c'è di mezzo una questione etica, antropologica e perfino genetica. Non possiamo liquidare il tema con un sì o un con un no. Dobbiamo considerare la carne da laboratorio come il frutto del progresso scientifico. Anche se il passo avanti ha dimensioni oggettivamente sconcertanti.
Stesso discorso per gli insetti?
Mentre loro consumo nel mondo occidentale nasce da una esclusiva propulsione mercantile. Non si inventa nulla di nuovo: quella degli insetti edibili è un’industria nascente che apre un terreno di concorrenza a un’altra impresa industriale, più radicata nel tempo. Passeranno entrambe le mozioni. E personalmente non mi schiero contro. Ma, per favore, non ammantiamole di contenuti ecologisti. Escludo che dai laboratori e dagli insetti possa derivare la fine degli allevamenti intensivi. Per decretarla, avremmo bisogno di un processo culturale molto più profondo, che parta dalla consapevolezza dei consumi, non dall’introduzione di nuovi prodotti sul mercato.