Altro che intrigo internazionale. Secondo Mauro Obinu, all’epoca capitano dei Carabinieri e oggi generale in pensione, il caso Orlandi sarebbe stato fin dall’inizio una “brutta storia” tutta italiana. Altro che KGB, SISDE o Vaticano. Forse è sempre stata solo una faccenda di predatori e ragazzine. Sarebbe sempre la stessa storia, anche quando si cerca di complicarla con sigle, geopolitica, servizi segreti e fantasmi di guerra fredda. Emanuela Orlandi, la quindicenne cittadina vaticana sparita nel nulla il 22 giugno 1983, secondo chi indagava da vicino già allora, è stata forse semplicemente vittima di un rapimento a scopo sessuale. Una storia squallida, terrena, ma che – a detta del generale Mauro Obinu – è stata presto sepolta sotto “una cappa informativa” fatta di depistaggi, disturbatori e mitomanie orchestrate o tollerate dai piani alti. Obinu, oggi in pensione ma allora capitano del Reparto Operativo dei Carabinieri di Roma, è stato ascoltato dalla Commissione bicamerale d’inchiesta che indaga sulla scomparsa di Emanuela e di Mirella Gregori, l’altra quindicenne romana di cui si sono perse le tracce nel maggio dello stesso anno. Durante l’audizione, ha riportato tutto: le ipotesi, le missioni sul campo, i sospetti e soprattutto quella sensazione iniziale, rimasta viva nonostante tutto. «All’inizio, prima che saltassero fuori “l’Amerikano”, “Mario”, “Pierluigi”, il Fronte Phoenix e tutto il resto, mi ero fatto l’idea terra-terra che Emanuela fosse stata presa per motivi sessuali. Forse con l’inganno. Una convinzione nata parlando coi vecchi marescialli che conoscevano bene la mala romana degli anni ’70 e ’80. Gente che sapeva leggere le cose sporche per quello che erano».


Ma poi arrivarono i “disturbatori”: personaggi e piste che puntavano alla Turchia, al Vaticano, alla CIA, alla Bulgaria, al terrorismo internazionale. «Erano ipotesi affascinanti», ammette l’ex carabiniere. «E in un contesto come quello – la cittadinanza vaticana di Emanuela, l’attentato al Papa nel 1981 – sembrava tutto plausibile. Così anche io mi sono calmierato». Eppure, passati quarant’anni, quella vecchia ipotesi resta in piedi. Anzi, torna a essere la più concreta, secondo Obinu. «Adesso sono tornato alla mia sensazione primigenia: una cosa bruttissima di natura sessuale. Ma sono valutazioni mie personali». C’è spazio anche per uno sprazzo di memoria sul campo: tra il 1983 e l’84, Obinu e il maggiore Ragusa – all’epoca suo superiore – si imbarcarono per una missione in Turchia. A Istanbul, poi nell’isola di Büyükada, arrivò una soffiata: Emanuela, o forse Mirella, sarebbe stata tenuta prigioniera in un suk. «Non ricordo se la fonte era il Sisde o altro. Ma col supporto del console italiano e della polizia turca, andammo a verificare. Due giorni a inseguire fantasmi. Una perquisizione in un negozio di tappeti, l’interrogatorio del gestore. Tutto inutile». Una missione fallita, come tante altre. Il generale lo dice senza filtri: il caso Orlandi è stato “un grande insuccesso investigativo”. Ma forse, se si fosse ascoltato di più il “fiuto” dei vecchi segugi della mala, invece di lanciarsi dietro sigle e complotti da thriller da edicola, oggi non staremmo ancora qui a cercare Emanuela tra le ombre del potere.

