La sera del 3 settembre 2019 mio padre si suicidò.
Il suo corpo fu trovato la mattina dopo nel suo studio dentistico, riverso sotto una foto che lo ritraeva insieme al suo paziente più illustre: Silvio Berlusconi.
Era stato il suo dentista per oltre quindici anni, in un periodo di tempo che va dal G8 di Genova, quando era Presidente del Consiglio, e arriva fino alla vigilia delle elezioni 2018, quando perse la leadership del centrodestra.
Pur molto diversi, i due divennero piuttosto amici, tanto che un paio di volte, durante l’estate, mio padre fu invitato dal Presidente a Villa Certosa.
In virtù del loro rapporto, conobbi personalmente Berlusconi nella primavera del 2003, quando avevo 21 anni; in seguito lo rividi altre volte, in circostanze sempre particolari, che ho raccontato nel libro Il veleno nella coda (Laurana Editore), proposto al premio Strega 2022 da Giovanni Pacchiano.
Il primo incontro: Shining e borotalco
Mi tese una mano bianca di polvere.
“Piacere, sono Silvio Berlusconi”.
Non ebbi nemmeno il tempo di rispondere.
“Scusa per il borotalco, ma tuo padre me l’ha messo ovunque, ancora un po’ e me lo metteva anche nel bus del cù”. Alle sue spalle sentii la risata sguaiata di mio padre.
“No, lì no, perché ti sarebbe piaciuto!”
Avevo capito che il rapporto tra Berlusconi e mio padre era amichevole, ma non immaginavo una cosa del genere.
“Su, vai a parlare con questo signore anziano”, mi esortò lui, al che Berlusconi mi prese sottobraccio e mi portò nello studiolo privato di mio padre. Eravamo più o meno alti uguali: se lui era un nano, come dicevano, lo ero pure io. Solo in seguito si seppe delle scarpe coi tacchi rinforzati.
Il Presidente chiuse la porta alle sue spalle. Eravamo soli, io e lui, in uno stanzino di tre metri per tre. Andò a mettersi al posto di mio padre, facendomi cenno di sedermi davanti a lui con la massima naturalezza, come se fosse a casa propria. Dal mio nuovo punto di osservazione lo vedevo sorridermi proprio come nei manifesti tipo “Meno tasse per tutti”, ma appesa alla parete dietro di lui c’era una gigantografia della famosa scena di Shining in cui Jack Nicholson abbatte la porta del bagno a colpi di accetta. Col ghigno folle dell’attore sopra quello del presidente del Consiglio non capivo più dov’era il confine tra realtà e finzione.
“Allora, ho saputo che hai lavorato per le mie aziende”, esordì il Cavaliere. Avevo vissuto il momento senza farmi nessuna domanda, come si fa nei sogni quando si vivono situazioni assurde ma ci si lascia trasportare dagli eventi; ora che cominciavo a mettere a fuoco la situazione, non sapevo cosa dire.
“Eh sì”, risposi cercando di darmi un tono professionale. “A Italia Uno”.
A quel punto il Presidente si produsse in una sfilza di aneddoti sui suoi esordi come editore televisivo: dalla faccia stupefatta di Mike Bongiorno nel leggere la cifra sul contratto per lasciare la Rai, a quando lui stesso, armato di vernice e pennello, cambiava il colore della scenografia dei programmi televisivi mentre dettava a Massimo Boldi gli sketch della puntata da registrare. Lo ascoltavo, ma ero distratto dall’effetto psichedelico della follia omicida di Jack Nicholson miscelata alle sue parole.
Dopo dieci minuti di racconto, il Presidente mi chiese di parlargli di “quei problemi” che avevo avuto “in azienda” e di cui mio padre gli aveva accennato.
Esitai. Ero entrato a Mediaset grazie alle ospitate dal suo Nemico Numero Uno. Lo sapeva, o era meglio glissare sull’improbabile percorso che mi aveva portato “in azienda”? Decisi di non rinnegare nulla ed esposi nel dettaglio com’erano andate le cose.
Appena nominai Michele Santoro ebbe un sussulto.
“Santoro, eh?”
“Ehm... sì, Santoro”.
“E com’è Santoro?”
“Be’... ehm...” Mi pareva di camminare sul ghiaccio. “A fare quello che fa, ecco, è... bravo”.
“Eh sì. È davvero bravo”, commentò il Cavaliere. “Magari ce l’avessimo noi, uno così”.
Mi venne da chiedergli: “E allora perché lo ha fatto fuori con l’editto bulgaro, Presidente?”, ma preferii sorvolare.
Arrivato all’ultima parte della mia storia, quando spiegavo di essere stato “fatto fuori da Italia Uno” perché appartenevo alla cosca perdente, usai proprio quell’espressione: “cosca perdente”. Una metafora perfetta, ma forse non la migliore in un’ottica di captatio benevolentiae, alla luce delle inchieste della Procura di Palermo approdate proprio in quei giorni sulle prime pagine dei quotidiani. Per fortuna Berlusconi era concentrato ad ascoltarmi, come se il mio breve resoconto fosse davvero importante per lui.
Terminai il resoconto e rimasi in silenzio, senza sapere bene cosa aspettarmi. Lui si guardò attorno e afferrò una penna dalla scrivania.
“Dammi il tuo numero”.
“Prego?”
“Dammi il tuo numero di cellulare”, mi incalzò.
Iniziai a dettarlo senza ulteriori domande e lui se lo segnò, cifra per cifra, sul palmo della mano. “Così non lo perdo”, disse. “Oggi ho un affaruccio importante a Roma”, aggiunse, “ma appena finisco sento una persona di mia fiducia e ti richiamo. Va bene?”
Ridendo, in stato di confusione e non sapendo cos’altro dire o fare, risposi che andava bene, certo, come no.
Ci alzammo, e Berlusconi mi prese sottobraccio. “Però devi promettermi una cosa”.
“Mi dica”.
“Qualunque cosa succeda, devi promettermi che ogni mattina farai dei balzi di gioia alti così, perché ti rimangono altri sessant’anni da vivere”.
Era stata una straordinaria esibizione teatrale, interpretata da un intrattenitore di livello mondiale che quasi mi aveva commosso. Mi rendevo perfettamente conto che io non c’entravo nulla, e che si era trattato di una cortesia nei confronti di mio padre, preoccupato per lo stato catatonico in cui versavo da un anno. Mi sentivo in colpa, così decisi che mi sarei iscritto all’università e avrei smesso – almeno rallentato – con la droga.
Volevo condividere la storia con qualcuno, ma non potevo chiamare un amico perché non mi avrebbe creduto. Così la raccontai a tavola a mia madre.
Ero li che raccontavo, quando, con la TV accesa, sentii distrattamente il conduttore di un telegiornale lanciare un servizio sulla visita di Berlusconi a Giovanni Paolo II. Sullo schermo, vidi il presidente del Consiglio in Vaticano farsi largo a fatica nel muro di fotografi e giornalisti, vestito esattamente come lo avevo visto da mio padre.
A Roma era già primavera e, come accade durante la mezza stagione, c’erano una decina di gradi in più rispetto a Milano. Berlusconi era troppo coperto, sudava come un cinghiale ricoperto di cipria. Parlando con i giornalisti, prese dalla tasca un fazzoletto per asciugarsi la fronte. Sulla mano aveva una vistosa macchia d’inchiostro.
Ero l’unico a sapere di cosa si trattasse.
Ad Arcore: bunga-bunga e Galbusera
Un inserviente aprì la porta e mi accolse all’interno.
Il primo impatto non fu dei più scenografici: nell’antica- mera all’ingresso c’erano dei giochi per bambini abbandonati sul pavimento, sedie e poltroncine piazzate a casaccio, alcune paia di scarpe da uomo in ordine sparso. Il maggiordomo, una specie di fantasma discreto con gli occhi vuoti, mi fece strada lungo una rampa di scale. Al piano di sopra c’era un piccolo disimpegno quasi immerso nel buio. Camminammo fino a una porta che dava su un salottino illuminato da una luce fioca. Il fantasma mi disse di attendere e poi si dissolse.
Osservai la stanza. Sopra i divani d’epoca, dipinti alle pareti che persino a un occhio ignorante come il mio sembravano valere una fortuna. D’un tratto sentii una voce femminile provenire da un angolo.
“Ciao”.
Mi voltai. Nell’ombra, intuii la silhouette di una donna. Era rimasta immobile fino a quel momento e io, per l’agitazione, non ci avevo neppure fatto caso.
“Buonasera”, risposi, senza riuscire a vederla in volto.
Per non essere scortese mi avvicinai. Gradualmente la riconobbi.
Era un ministro della Repubblica che avevo visto innumerevoli volte in televisione. Indossava un tailleur con giacca e gonna nere, il tutto sembrava molto formale.
Presentandosi, mi diede immediatamente del tu e mi propose un bicchiere di champagne.
Ero alquanto confuso. Invece di rispondere con un “Sì”, emisi un incomprensibile miagolio felino. Lei si avvicinò, mi appoggiò la mano su un braccio. La gonna salì fino all’inguine. “Perdonami, non ti ho capito”.
“Sì, grazie”, riuscii ad articolare, con la salivazione che aumentava.
Guardandola negli occhi, mi venne una sorta di sospetto istintivo. Non ero più un ragazzino come ai tempi di Rosita Celentano. Ma subito scacciai il pensiero inaudito: era naturale che il Ministro mi desse confidenza, eravamo entrambi nella sala d’aspetto di Berlusconi e per quanto ne sapeva lei potevo essere un calciatore del Milan, un giovane finanziere, un venditore d’armi libico o la sua banca degli organi segreta.
Quando mi offrì il bicchiere, lo afferrai e trangugiai un gran sorso. Ero a stomaco vuoto. I contorni del mondo si fecero più accoglienti.
Mi presentai come un autore di Striscia la Notizia e conversai con il Ministro per venti minuti abbondanti. Era molto curiosa di sapere come funzionasse il lavoro degli autori, di cui mi rivelò non aver mai sospettato l’esistenza. Continuando a versare champagne nei bicchieri di entrambi faceva domande, rideva alle mie battute ed era molto disponibile, molto più che in TV dove appariva sempre misurata e austera.
Fu probabilmente a causa dello champagne, ma a un certo punto ebbi la netta sensazione che la sua mano avesse sfiorato la mia. Un tocco lieve, rapidissimo, che tuttavia non mi era parso casuale.
E in quel momento, mi accorsi di avere un’erezione.
Per un secondo mi estraniai dalla stanza e guardai la scena dall’esterno. Ricapitolando: ero a casa del presidente del Consiglio dove stavo flirtando apertamente con un ministro della Repubblica che, inconsapevolmente o meno, mi aveva appena fatto venire il cazzo duro.
Sembrava una situazione assurda, ma un attimo dopo pensai che, in fondo, era una situazione del tutto coerente con il luogo e il momento storico, e in forza di questo pensiero, senza rendermene conto, sfiorai io stesso la mano del Ministro in modo altrettanto lieve e rapidissimo com’era stato il suo; con il cuore che martellava in petto, mi dissi che lei ora si stava chiedendo la stessa cosa che mi ero chiesto io un momento prima, se quel tocco fosse stato il frutto di un caso o di una premeditazione. Completamente scisso, pensavo da un lato che quanto stavo facendo era una follia e che avrei fatto meglio a fermarmi all’istante, dall’altro che avrei dovuto assolutamente chiederle il numero di telefono per farle capire nel modo più chiaro possibile che intendevo spogliarla e sbatterla con forza, e che avrei voluto farlo lì, nella stessa stanza dove il marchese Casati spiava la moglie mentre si concedeva agli sconosciuti, e dove tutta Italia era convinta andasse in scena lo spettacolo senza vergogna chiamato “bunga bunga”.
Ma improvvisamente la porta si aprì e l’arrivo del Presidente mise fine al mio volo pindarico ad alto tasso alcolico- erotico.
***
Indossava una tuta nera e scarpe da ginnastica intonse, candide come lo smalto dei denti nella pubblicità di un dentifricio. Mi chiese se avessi fatto caso ai quadri appesi alla parete e se volessi conoscerne la storia.
Risposi “Sì, certo”, e prese il via un tour del primo pia- no della villa in cui il Presidente, come una guida turistica, cominciò a spiegarmi i segreti delle opere utilizzando un linguaggio ottocentesco, aulico fino al barocchismo. Poi, davanti al ritratto di un nudo femminile, raccontò una barzelletta di quelle che nemmeno un camionista nel parcheggio di un autogrill avrebbe avuto l’ardire di raccontare a uno sconosciuto.
Da lì salimmo a un piano superiore, ed entrammo in una grande stanza che sembrava una specie di magazzino. C’erano suppellettili ovunque, la maggior parte delle quali era costituita da una valanga di premi che il Presidente aveva ricevuto nel corso delle sue tante vite professionali. Coppe, targhe, statuette, quadri e quadretti incorniciati che aspettavano da anni di essere affissi a una parete.
Guardandoli uno a uno pareva di sentire il vociare della folla al momento dell’assegnazione, gli applausi, gli evviva e i discorsi ufficiali, ma nell’insieme, gettati alla rinfusa sui tavoli del magazzino, svuotati di ogni valore simbolico, non erano altro che un bric-à-brac di plastica e metallo di bassa lega. Eppure Berlusconi ricordava la storia di ogni oggetto, come in una processione facevamo tre passi, poi il Cavaliere ne pescava uno a caso dal mucchio e raccontava di quando, come e perché gli era stato assegnato, a volte aggiungendo brevi aneddoti sulla serata. “Questo me lo diedero una sera a Roma all’Ambasciata americana, c’era anche Bush”.
“Questo lo ricevetti al Santiago Bernabeu insieme a Florentino Perez” – sembrava potesse andare avanti in eterno.
Una persona normale avrebbe potuto sentirsi lusingata dalle generose spiegazioni offerte dal padrone di casa, ma io sapevo benissimo che tutte quelle chiacchiere non erano rivolte al sottoscritto. Berlusconi non si stava rivolgendo a me: il suo reale interlocutore era il suo Oscuro Inquilino, e noi eravamo nel suo antro.
Potendoselo permettere, il Presidente si era costruito un luogo dove entrare ogni volta che ne avesse avuto voglia, per ricordare al suo Inquilino gli innumerevoli successi, per fissarli nello spazio proteggendoli dal tempo, illudendosi che questo bastasse a placarne la fame.
Ma com’era evidente dai fremiti nervosi delle sue mani mentre toccava, ripuliva e sistemava quella paccottiglia senza valore, il trucco non gli riusciva: quella roba era già stata mangiata e digerita tempo prima e per quanto lui si sforzasse di domarlo, attraverso le spiegazioni che mi offriva, o di arrivare perlomeno a un compromesso – ti ho sfamato così tante volte in passato, ora che sono vecchio lasciami stare – l’Oscuro Inquilino continuava ad aggirarsi nel suo ventre con gli occhi fuori dalle orbite. Giovani donne, Coppe dei Campioni o la presidenza della Repubblica, non faceva differenza: l’Inquilino ne voleva ancora e niente l’avrebbe fermato.
Lo guardai con terrore. Se persino un uomo come lui era in guerra con se stesso, era inutile illudersi che fosse possibile arrivare a una tregua: era destino di alcuni non essere mai soddisfatti, a nessuna condizione.
***
Due ore più tardi mi condusse in sala da pranzo per prendere il tè. Nella stanza, ritrovai il Ministro. Era seduta a tavola, e continuava a bere champagne. Lo sguardo si era fatto spento, gli occhi acquosi e disinteressati. Non sapevo se esserne contento o deluso. Mi aspettavo un lusso esagerato, invece lo stesso inserviente che mi aveva accolto portò un vassoio con alcune tazze appartenenti a servizi diversi, una teiera di ghisa e un pacchetto di biscotti simil- Galbusera, di quelli che piacciono ai bambini molto piccoli e agli anziani molto anziani.
Berlusconi prese una manciata di biscotti e ne immerse uno nella tazza fino a tuffarci le dita. Quando il biscotto divenne molle e si spappolò, lo raccolse con un cucchiaio e se lo portò alle labbra, aspirando rumorosamente – lo stesso gorgoglio della bisnonna Gesuina con la sua pastina in brodo. Mi guardai attorno immaginando la sala piena di ventenni intente a baciare il fallo della statua di Priapo.
Comparve un’assistente per sottoporgli delle notizie Ansa appena stampate. C’era stata una manifestazione sindacale, la segretaria della CGIL Susanna Camusso aveva sparato a zero contro di lui, e Berlusconi leggeva le notizie ad alta voce commentando i siluri della sindacalista con esclamazioni tipo “Addirittura!” o “Ellamadonna!”; alla fine mi guardò sorri- dendo: “Diciamo che il sottoscritto, alla Camusso, non sta molto simpatico!”
Era una battuta, ed era anche esilarante per il modo in cui l’aveva pronunciata, ma ebbi la sensazione che ci fosse anche una vena di amarezza, come se davvero fosse dispiaciuto che qualcuno ce l’avesse con lui.
Intanto, il Ministro aveva provato diverse volte a intavolare una discussione chiedendogli un parere su una notizia o rife- rendogli un fatto che riguardava il governo, senza mai ottenere la sua attenzione. Da quando era arrivato, Berlusconi non le aveva mai rivolto la parola. Lei però non si perdeva d’animo. “E di Milano vogliamo parlare? Dico, hai sentito cosa sta facendo Pisapia?”
Al nome “Pisapia” Berlusconi si accese. Si girò subito verso di me.
“Tu che lo conosci, com’è questo Pisapia?” Sapevo che lui sapeva, che aveva visto i volantini nella sala d’aspetto dello studio da mio padre, con la mia faccia e il logo della lista civica di Pisapia. Ma la cosa sembrava non causargli il minimo imbarazzo.
Alla domanda, tuttavia, non sapevo rispondere: con Pisapia non avevo mai parlato, pur essendo stato candidato nella lista che portava il suo nome.
“Simpatico” fu l’unica cosa che mi venne in mente.
Il volto di Berlusconi si scurì. “Ma perché noi non riusciamo mai a candidare qualcuno di simpatico?”, mi domandò tutto serio.
Perché i post-fascisti tendono a essere un po’ stronzi, volevo rispondergli, ma in realtà mi strinsi nelle spalle senza dire nulla.
Passarono altri minuti di timidi tentativi del Ministro, alternati a profonde aspirazioni di Galbusera sfatti. Finalmente, una volta svuotato il pacchetto, Berlusconi si addossò allo schienale della sedia mettendosi in posizione d’ascolto.
Era il segnale che si poteva cominciare a parlare di lavoro.
Il gelato e la signorina Bisturi
L’aria era calda, sul calendario era ancora estate, ma ogni tanto qualche folata di vento più fresca ricordava alle foglie che presto sarebbero entrate nel braccio della morte dell’autunno. Al mio fianco, Berlusconi portava un panama bianco e una camicia nera con i primi tre bottoni slacciati.
“Ho voglia di un gelato. Ti va un gelato?”
Come avrei potuto rifiutare? “Certo”.
“E allora, gelato!”, ordinò lui, schioccando le dita. L’autista rispose con un impercettibile cenno di assenso.
Comunicò qualcosa a un invisibile microfono appeso al taschino della giacca e prese a seguire una macchina davanti a noi che a sua volta ne seguiva un’altra, mentre una quarta auto, alle nostre spalle, chiudeva il corteo.
Poco dopo, squillò un telefonino appoggiato sul sedile anteriore. L’autista lo afferrò e lo passò a Berlusconi. Dalla cornetta proveniva una voce femminile che, pur non capendo le parole, si indovinava aggressiva, per non dire rabbiosa. Chiunque fosse la proprietaria di quell’eloquio era sicuramente in stretti rapporti con il mio ex socio, perché lo interrompeva di continuo, senza la minima soggezione, come se stesse parlando con un barista.
“Ma devo andare alla crociera organizzata dal Giornal...” “Ho già detto al direttore che...”
“Dammi retta se ti dico che...”
Ogni volta che il cosiddetto Uomo Più Potente d’Italia provava a smarcarsi, la voce saliva di tono, controbattendo e, apparentemente, mettendolo all’angolo. Era a un passo da finire al tappeto.
“Ragiona, su: c’è gente che ha pagato parecchio per incontrarmi, non posso disdire tutto adesso!”, gridò alla fine, esasperato.
Al che la signora o signorina passò alla modalità “urlo permanente”.
Il match era stato squilibrato fin dall’inizio, ma quell’ultimo attacco isterico fu l’uppercut finale. Berlusconi si accasciò contro lo schienale. “E va bene. Andremo a Roma domattina”.
Trasse un lungo sospiro, poi alzò lo sguardo e dalla sua espressione di improvviso stupore ebbi la sensazione che stesse per chiedermi chi fossi e come diavolo avessi fatto a introdurmi nella sua auto. Come se si fosse improvvisamente stancato del mondo, si voltò a guardare fuori dal finestrino. “Anche quest’anno è finita l’estate”.
***
Ci fermammo davanti a una gelateria.
Doveva esserci una qualche procedura precisa, perché le auto davanti e quella dietro non si fermarono accanto a noi, ma presero posizione nei pressi del semaforo successivo e dall’altro lato della carreggiata.
In quel modo la nostra sembrava un’auto come tante, non c’erano neppure i finestrini oscurati: un passante con un cono al pistacchio, tra una leccata e l’altra, avrebbe potuto imbattersi nello sguardo esausto di Berlusconi.
L’autista si voltò verso di me. “Lei che gusti prende?”
Vedendomi tergiversare, il mio ex socio intervenne in mio soccorso. “Il fiordilatte è eccezionale”.
“Va bene, fiordilatte”.
“Tutto fiordilatte?”, si accertò l’autista. Quella del gelato aveva tutta l’aria di essere una faccenda importante, su quella macchina.
“Fior di latte e cioccolato”, mi affrettai a precisare.
Soddisfatto, l’autista scese per compiere la missione. Attraverso il finestrino lo vidi farsi largo tra la folla per poi sparire all’interno della gelateria, una persona tra le tante. Anche Berlusconi continuava a guardare fuori, le facce della gente, le macchine, i colori, lo stile delle insegne dei negozi. “Capito che vita faccio?”, commentò senza guardarmi.
Poco dopo l’autista tornò, impugnando i gelati.
Notai che il mio ex socio aveva optato per un tris: fiordilatte, crema e qualcosa di simile al bacio. Allungò la mano avidamente, afferrò il cono e lo portò alla bocca spalancata, trangugiando tutta insieme una quantità enorme di fiordilatte.
Il resto del viaggio scivolò via tranquillo, soprattutto perché, appena il traffico serale si intensificava, una delle macchine davanti a noi azionava la sirena, esponendo la paletta rossa, e agli altri veicoli non restava che spostarsi a destra e a sinistra della carreggiata per farci passare.
In breve raggiungemmo Arcore e Villa San Martino.
Faceva caldo, e invece di entrare in casa ci spostammo subito in giardino; su un lato della villa c’era un’area con alcuni tavolini. Qualcuno aveva apparecchiato, c’erano due tazze per il tè e un vassoio con il coperchio.
Sapevo già quale prelibatezza inzuppabile si nascondesse lì sotto.
***
“Sono curioso. Perché vai in America?”, mi domandò, la bocca piena di simil-Galbusera.
Cercai di restare sul vago, spiegandogli che volevo imparare bene la lingua, riprendere gli studi universitari, mettermi alla prova, ovvero quel genere di argomentazioni logiche ma incredibilmente superficiali cui è impossibile controbattere senza addentrarsi nel profondo delle questioni, e che quasi sempre scoraggiano l’interlocutore dal porre altre domande.
I pasticcini diminuivano, e pure i simil-Galbusera, e io cominciavo sia a preoccuparmi per il tasso di glucosio nel sangue del mio ex socio, sia a chiedermi per quale motivo mi avesse fatto venire fin lì: se avesse avuto bisogno di compagnia, avrebbe potuto rivolgersi a qualcuno con più leggiadria.
Ma ecco che la risposta cominciò a emergere, come un simil-Galbusera che usciva dal tè invece di entrarci.
Con fare casuale, Berlusconi iniziò a parlare delle elezioni politiche che si sarebbero tenute di lì a cinque mesi, alla fine di febbraio. Per l’ennesima volta, tutti pensavano che la sua carriera politica fosse al capolinea e sui giornali sfilavano i nomi dei possibili nuovi leader del centrodestra pronti a raccogliere la sua eredità, da Montezemolo a Casini, mentre gli esponenti di solito più vicini ad Arcore liquidavano il tutto come una boutade, sostenendo che il Cavaliere avrebbe appoggiato il presidente del Consiglio Mario Monti, cui erano bastati pochi mesi di celebrità per dimenticarsi della promessa di non candidarsi fatta al presidente della Repubblica per tuffarsi di pancia nell’agone politico.
Business as usual, anche se questa volta le cose sembravano diverse. Qualche mese prima, a Striscia, avevamo trasmesso un filmato in cui Berlusconi, parlando di Google, lo aveva chiamato “Gogol”, come lo scrittore dei Racconti di Pietroburgo, e l’idea che se ne ricavava era quella di un uomo del secolo scorso, in drammatico ritardo sulla modernità. Nonostante l’eterno presente italiano, insomma, il resto del mondo era andato avanti, e che un Berlusconi sulla soglia degli ottant’anni passasse la mano era nell’ordine delle cose. Del resto, il dilemma su cos’era stato – santo o ladro o martire o carnefice o mafioso o dio egizio – si era ormai ridotto a questione secondaria, e a polarizzare il dibattito e a infiammare liti e gli insulti delle “legioni di imbecilli” sui social erano altri politici, più giovani e spregiudicati, ognuno dei quali, pur ricordandolo in qualcosa, sembrava mancare di una visione d’insieme, di un’idea di Paese in cui la maggioranza del popolo potesse, più o meno consciamente, identificarsi.
E invece lì, mentre sbocconcellava simil-Galbusera, il mio ex socio rivelava candidamente che non solo non aveva intenzione di mollare, ma che si sarebbe nuovamente presentato alle elezioni quale premier unico del centrodestra.
Al diavolo giornali, sondaggi, capibastone e vecchi consiglieri democristiani che non capivano nulla dell’umore della gente: lui si sarebbe candidato e avrebbe vinto, diceva, sarebbe diventato ancora presidente del Consiglio, non stava cominciando nessuna fase nuova, ed era esattamente per questo che mi aveva convocato – per sapere se invece di andare in America fossi interessato a “dargli una mano”, entrando nel suo staff di comunicazione.
“Ho bisogno di qualcuno in grado di parlare ai giovani. Sui giovani siamo indietro, lo dicono i sondaggi”.
Non sapevo cosa rispondere e non dovetti rispondere nulla, perché dalla portafinestra della villa uscì la titolare della voce che lo aveva suonato al telefono.
Non più giovane, portava ben visibili i segni degli interventi di chirurgia estetica cui si era sottoposta. Irruppe in giardino investendo l’ex presidente del Consiglio con una serie di questioni che, a suo dire, necessitavano di essere risolte immediatamente e, dopo aver sbattuto sul tavolo delle carte, intimò al mio ex socio di fare al più presto quello che gli chiedeva – il tutto senza rivolgermi uno sguardo, né dare a vedere che aveva notato la presenza di un estraneo.
L’imbarazzo del supposto Uomo Più Potente d’Italia era evidente. Cercò di presentarmi alla Signora Bisturi, non tanto per gentilezza quanto per invitarla a tenere un atteggiamento più misurato, ma lei mi strinse la mano sbrigativamente e poi continuò come se nulla fosse. Sembrava quasi che provasse piacere nel maltrattare l’illustre padrone di casa in presenza di un ospite sconosciuto.
Da un punto di vista umano, non potevo che provare simpatia e persino tenerezza per Berlusconi. Forse lui se ne rese conto, perché dopo aver cercato di sdrammatizzare si alzò in piedi e, scusandosi, disse che sarebbe tornato al più presto.