Per la Siria inizia una nuova era. L'avanzata dei “ribelli”, termine volutamente vago per nascondere la reale matrice di chi ha rovesciato il governo del Paese, è costata carissima a Bashar Al Assad. Il presidentissimo, che in passato era riuscito a congelare la guerra civile contando sul determinante aiuto di Russia e Iran, ha lasciato Damasco insieme alla sua famiglia. Non sappiamo dove si trovi. Né siamo in grado di prevedere chi prenderà il suo posto. Né, soprattutto, conosciamo con esattezza le reali dinamiche che hanno consentito a vari gruppi anti governativi, quasi dal nulla, di fagocitare Aleppo, Homs e quindi Damasco. Game Over per Assad, che questa volta non ha potuto giocare i jolly Hezbollah e Aeronautica russa, con Teheran e Mosca impegnati a fronteggiare Israele e Ucraina. Ma com'è possibile che gruppuscoli di “ribelli”, tenuti insieme dal solo obiettivo di rovesciare il governo in carica, abbiano fatto all in nell'arco di pochi giorni? C'è chi sussurra che dietro Hayat Tahrir al Sham (Hts), principale formazione dello schieramento anti Assad, ci siano sponsor esterni. Quali? Stati Uniti e Israele, felici di creare il caos in terra siriana per mettere pressione su Vladimir Putin (che in Siria aveva una base navale strategica a Tartus) e sugli ayatollah (che con Assad contribuivano a formare l'Asse della resistenza anti israeliana), oppure la Turchia di Recep Tayyip Erdogan, in passato principale sostenitore della rivolta armata contro Assad, e o stanco dei capricci dell'ormai ex leader siriano.
Ci sono un paio di fatti curiosi da menzionare. Il primo è che, mentre gli Stati Uniti, l'Unione europea e le Nazioni Unite considerano Hts un'organizzazione terrorista, alcuni alti funzionari dell'Ue hanno quasi salutato con piacere l'uscita di scena del “dittatore Assad”. “La fine della dittatura di Assad è uno sviluppo positivo e atteso da tempo. Mostra anche la debolezza dei sostenitori di Assad, Russia e Iran. La nostra priorità è garantire la sicurezza nella regione. Lavorerò con tutti i partner costruttivi, in Siria e nella regione”, ha scritto su X l'Alto rappresentante dell'Ue per la Politica estera, Kaja Kallas. Insomma, a Bruxelles nessuno sa più da che “parte stare”. Tanto meno l'Italia – secondo fatto curioso – che sul dossier siriano non ha toccato né toccherà palla. Il governo Meloni si sta occupando dell'evacuazione dei circa 300 connazionali presenti in Siria ma non è affatto nella posizione di influenzare gli eventi in Medio Oriente. Roma, semmai, prega di non dover fare i conti con una nuova ondata di migranti, profughi e sfollati in fuga dalla Siria governata da Hts.
Assad non è caduto da solo. La sensazione è che qualcuno abbia deciso un regime change per la Siria. Su quel qualcuno c'è però nebbia fitta. Come detto, Stati Uniti e Israele avrebbero le loro buone ragioni geopolitiche, così come la Turchia. Senza dispiegare un solo ulteriore soldato nel nord della Siria, il governo turco ha infatti visto materializzarsi due dei suoi più antichi desideri: allungare l'ombra oltre le zone controllate dai suoi militari, per lo più vicino al confine, assistere al ritiro delle forze curde siriane legate al Pkk. Perché Russia e Iran non sono intervenute per sostenere il loro alleato? Davvero non erano in condizione di fornire assistenza militare al governo di Assad o, forse, soprattutto Mosca, ha ricevuto in cambio qualche garanzia e ha lasciato che la caduta del leader siriano non si interrompesse? L'avvento dei ribelli offre alla Turchia più potere per limitare l'influenza russa e iraniana nella regione, ma rischia anche di provocare nuova instabilità alle porte di Ankara (dove durante il primo conflitto in Siria si sono rifugiati più di tre milioni di siriani). Non è da escludere che Erdogan e Putin possano aver concordato qualcosa: se così fosse, allora il ruolo di Washington e Tel Aviv sarebbe decisamente ridotto. E se la Siria, invece, fosse finita al centro di più giochi di potere? Ne sapremo di più quando capiremo chi – e come – governerà il Paese.