Per il pubblico ministero dare della "bastarda" a Giorgia Meloni, come fece Roberto Saviano durante una puntata della trasmissione “Piazzapulita”, costa la pena pecuniaria di 10mila euro. Per l’avvocato del premier invece ce ne vogliono 135mila: 75mila di pena pecuniaria e almeno 50mila di provvisionale. Mentre per il giudice che lo ha condannato soltanto 1000 euro. Ci sarebbero molte riflessioni da fare, dalle sottili differenze tra ingiuria e diffamazione (se la persona offesa non è presente diventa “diffamazione”, ma è ancora valida questa regola all’epoca dei social e di internet o anche quando una affermazione è fatta in televisione, da un personaggio famoso, durante un programma famoso, diretta a una persona famosa?), e se non si debba prima o poi considerare “l’insandacabilità” dei parlamentari sulle loro parole (e se ne sentono molte di cose, e anche diffamatorie, da parte dei politici) e la sindacabilità, invece, di uno scrittore (non si merita l’insindacabilità anch’esso?) o anche di un semplice cittadino. C’è una certa sproporzione? Temi soltanto sfiorati dalla “dichiarazione spontanea” di Roberto Saviano: “Oggi sono qui senza Michela Murgia, che mi è sempre stata accanto. Pur nell’assurdità di essere portato a giudizio dal presidente del Consiglio dopo averla criticata, non c’è onore più grande che può essere dato a uno scrittore che vedere le proprie parole mettere paura a un potere tanto menzognero. Quando un giorno ci si chiederà come è stato possibile lasciar annegare tutte queste persone in mare, il mio nome non sarà tra quelli dei complici. Davvero stiamo accettando che il potere politico pretenda che il potere giudiziario delimiti il perimetro nel quale può muoversi uno scrittore? È così difficile notare la sproporzione tra chi ha il potere politico e chi ha solo le proprie parole? Sono abituato a pagare un prezzo per ogni parola. Impedire il dissenso significa colpire a morte il cuore pulsante della democrazia”. Saviano l’ha insomma buttata un po’ in politica per un’aula di tribunale, forse. E comunque non solo Saviano: oggi succulenti giornate in tribunale, che di solito non sono poi così esaltanti, ma che a volte solleticano (anche oltremodo) l’opinione pubblica. Due le corti di appello che hanno ribaltato le sentenze di primo grado.
La prima quella di Reggio Calabria, che era chiamata a decidere delle sorti di Mimmo Lucano, sindaco di Riace, cittadina che per un periodo diventò addirittura meta di pellegrinaggio turististico-engagée per la politica di accoglienza nei confronti dei migranti, dietro cui l’accusa aveva individuato invece una serie di reati. Il tribunale di Locri, in primo grado, lo aveva condannato a 13 anni e 2 mesi per associazione a delinquere, truffa, peculato, falso e abuso d’ufficio. La sentenza del tribunale di Reggio Calabria ha assolto Lucano da tutti i reati più gravi, lasciando in piedi solo il reato di abuso d’ufficio e condannandolo a 1 anno e 6 mesi, con pena sospesa. C’è da aggiungere che il reato di abuso d’ufficio nelle azioni dei sindaci sono al momento oggetto di accese discussioni (molti sindaci sono convinti che, così come è impostato tale reato, rischi di paralizzare l’amministrazione delle città). C’è troppa differenza tra la sentenza di primo grado e quella di appello? Ci vorrebbe un tipico intercalare siciliano a commento.
Anche la seconda Corte di appello di Milano ribalta la sentenza di condanna in primo grado – 2 anni e 6 mesi per aggiotaggio informativo e false comunicazioni sociali – assolvendo Roberto Napoletano, all’epoca dei fatti contestati direttore de Il Sole 24 Ore con la formula “per non avere commesso il fatto”. Ricordiamo che a seguito dell'apertura dell’inchiesta vi fu una assemblea dei giornalisti del quotidiano e il 90 per cento dei partecipanti chiese le dimissioni immediate dell’allora direttore.
Ci sono riflessioni da fare? Al momento soltanto una: il nostro è uno stato di diritto e quindi garantista, ed è grazie a ciò se vi sono più gradi di giudizio e se si possono vedere ribaltate le sentenze. È forse la società a dovere reimparare il garantismo (dico reimparare perché era nel Dna della nostra Costituzione, prima che – credo a causa dei social e dell’urgenza del commento da bar – si dimenticasse quasi del tutto).
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