Avete mai avuto il coraggio di fare voi la prima mossa? Quasi tutte rispondono di sì. Con la fierezza della risposta giusta. Come a scuola nelle interrogazioni collettive. Una ragazza alza la mano e dice: “Io ho preteso di pagare alla romana già al primo invito a cena. Siamo alla pari, femmine e maschi, anche nel corteggiamento”. La moderatrice sorride. E in quel sorriso c’è il plauso, un po’ materno un po’ autoreferenziale, alla platea delle giovani donne consapevoli e determinate. Che sanno rispondere ai quesiti sull’autocoscienza femminile: ‘con me il sushi si paga a metà’, ‘passo a prenderti io in moto’, ‘sono in una call, ti richiamo per l’orario’, ‘non c’è bisogno che mi riporti a casa, prendo un taxi’. E’ maggio 2023. Il luogo a Milano in zona Moscova scelto per la conferenza stampa del lancio (in realtà un rilancio) della dating app Bumble è modaiolo. Vegetazione dentro e fuori, tavolini con piccole abat-jour, cristalli a cascata sul tavolo del bar. Pouf dove se sei un po’ fuori taglia è meglio che ti siedi per terra. Un centinaio di donne fra i 20 e 25 anni, blogger, influencer e redattrici, ha ricevuto l’invito. Tanto che la mia presenza di boomer over 50 (si vede anche dal desueto termine che uso) si nota: sono un pesce fuor d’acqua. Anzi, una triglia addormentata in mezzo a guizzanti pesciolini rossi con occhi e squame scintillanti. Penso: “Che palle! Speriamo che finisca presto e si dia il via al rinfresco”. Il mio occhio allenato è in grado di fare uno screening istantaneo degli spazi per verificare dove si trovano vini e tartine e calcolare il percorso più veloce. Guardo l’ora impaziente. Naomi Walkland, vicepresidente di Bumble, spiega in inglese motivazioni e mission: “Questa è la prima dating app women-first! Abbiamo creato Bumble per sfidare le norme di genere e dare il potere alle donne: sono loro a fare la prima mossa e al timone della conversazione”. Nessuno traduce, ovviamente: se oggi non conosci la lingua della tecnologia è meglio fingere e annuire. L’audience è entusiasta. La presentazione della app (quotata in borsa) creata nel 2014 da Whitney Wolfe Herd, fra le più giovani miliardarie self-made, è l’occasione per le ragazze presenti di raccontare le proprie esperienze concrete di lotta per la parità. Sollecitate dalla moderatrice esprimono le loro piccole conquiste quotidiane con i maschi: siamo noi a decidere chi, cosa, quando. Mentre raccontano di questa o quella situazione, mi assale tuttavia una certa inquietudine. Non è un po’ troppo riduttivo parlare di parità per una app di incontri in cui è lui a essere cercato con 24 ore di tempo per rispondere? Ripercorro gli anni delle battaglie anni ‘70, vissute da piccola con mia madre: le lotte per l’uguaglianza sul lavoro, per l’autonomia, per i servizi e le tutele alle madri. Tanti i flash di donne ‘incazzate’ alle manifestazioni che urlano slogan, dibattiti e confronti accesi, battaglie politiche, sensibilizzazione su temi come aborto e anticoncezionali nei consultori. Ricordo anche che alle scuole medie sperimentali facevamo vere e proprie inchieste intervistando in gruppi le donne per strada. Chiedo di intervenire e, timidamente, provo a esprimere il mio disagio su questo attivismo da dating app, rivoluzione del galateo, corteggiamento femminile. Cito anche le creator femministe di OnlyFans. Vorrei capire di più.
Silenzio. Le ragazze osservano con occhi sgranati la triglia che parla fuori contesto. La moderatrice risponde così: “Oggi il femminismo passa anche da questo. E rispetto a OF, la scelta di fare ciò che si vuole con il proprio corpo è esercizio di libertà. C’è una ragazza che legge Socrate nuda, meravigliosa!”. Incasso la risposta e vado al bar per le bollicine. A sorpresa mi raggiungono altre quattro colleghe sulla cinquantina: “Dove vi eravate nascoste?”, chiedo. Siamo le uniche, noi cinque, a non portare tacchi alti, ad avere i capelli sfatti e il viso senza trucco. Con la faccia stanca ci rivolgiamo l’una all’altra uno sguardo complice. “Bevo solo un bicchiere, devo volare a casa a scrivere e star dietro a mia figlia che domani ha un esame”, dice una di loro. Un’altra mi invita con lei a un altro evento da coprire in serata, ma di corsa perché è già tardi. Quasi tutte abbiamo figli, quasi tutte non ci ricordiamo chi ha fatto la prima mossa. Solo l’ultima, la meno gloriosa di tutte: la fine del rapporto. Quasi tutte indossiamo la solita giacca pantalone usata per la Scala, il vernissage, la laurea di nostro nipote. “Ho chiesto un permesso per domani, scappo - mi dice Barbara, la collega che diventerà mia amica - devo portare la figlia a Roma dove studia medicina, le ho trovato casa. Con il lavoro, da madre single, faccio fatica a gestire tutto”. Ecco, mi dico, qualcosa lo abbiamo ottenuto. O meglio, lo hanno ottenuto le nostre madri prima di noi. Ma forse non ci siamo rese conto che oggi tutto questo è un dato acquisito. Che il femminismo che scorre sui social è nuovo e tutto da esplorare. Che siamo noi, le boomer, a dover fare uno sforzo in più per riconoscere, nel fiume indistinto del web, cosa sia eredità di quel femminismo e cosa sia invece solo un brand, un’operazione di marketing bella e buona. Cercando di non cadere nei luoghi comuni della nostra generazione, abituata ai cortei di piazza, ad avvisare casa di sera dal telefono a gettoni (lo smartphone era ancora fantascienza), a non fare l’autostop (l’unica volta che lo feci per emergenza mi trovai tentacoli addosso e fuggii al primo semaforo rosso), men che meno a intraprendere la prima mossa per non essere etichettata come ‘ragazza facile’, provo a dare uno sguardo in rete.
Scopro, così, che ci sono influencer molto attive in tema di femminismo e pari diritti che utilizzano le piattaforme social per sensibilizzare. Sono impegnate soprattutto contro la violenza di genere e per l’autocoscienza, ma anche per la tutela di malattie femminili e, alcune, per il sex working come espressione di libera e consapevole decisione. Jennifer Guerra, per esempio, sul suo profilo Instagram che ha superato i 55mila follower, annuncia il suo ultimo lavoro di scrittrice, in libreria da marzo: “Il femminismo non è un brand”. È un caso che usi proprio la parola brand? Classe 1995, laureata in Lettere e in Editoria, comunicazione e moda, Guerra è una giornalista che ha al suo attivo libri come “Il corpo elettrico”, “Il desiderio nel femminismo che verrà” (2020) e “Il capitale amoroso - manifesto per un eros politico e rivoluzionario” (2021). Tratta tematiche di genere e di diritti Lgbtq+. Spiega che grazie a internet e alla cultura pop il femminismo è diventato un fenomeno di massa. Ora tutti dovrebbero essere femministi’ e in gran parte lo sono: quasi il 70 per cento delle donne americane con meno di 30 anni si identifica in questa parola. Poi specifica: “Questo è senz’altro un bene, ma la diffusione del femminismo popolare ha avuto anche conseguenze più ambigue: un femminismo che piace alle istituzioni e al mercato, che non mira alla distruzione dello status quo ma al massimo a una più equa distribuzione del potere. E così, Ceo, celebrità e girlboss varie diventano i nuovi volti di un femminismo rassicurante. Questo fenomeno è stato chiamato in molti modi: femminismo pop, femminismo neoliberista, lipstick feminism. Ma non è che il problema stia più nel capitalismo che nel femminismo?”. Bella domanda. Sul web troviamo anche Cathy La Torre, avvocata civilista che vive a Bologna ed è una delle attiviste italiane più apprezzate e seguite, con oltre 700mila follower. Specializzata in diritto antidiscriminatorio si occupa di orientamento sessuale, identità di genere e anche lei di diritti della comunità Lgbtq+. Nel 2008 ha fondato il Centro europeo di studi sulla discriminazione. A proposito del suo ultimo libro “Non è normale, se è violenza non è amore, è reato” (Feltrinelli, 2024) spiega: “Quello che state per leggere è una sorta di piccola cassetta degli attrezzi per renderci maggiormente consapevoli di cosa sia la violenza e di quanto sia spacciata per ‘normale’ in molti ambiti delle nostre vite: molte cose dipinte come normalità sono invece veri e propri reati o illeciti”. Il suo, si legge, è una sorta di “Bignami” capace di fornirci gli strumenti necessari per coltivare l’amore senza cercare di compiacere gli altri e annullare noi stessi. Non va confuso con ciò che è reato. Non è normale avere il telefono sotto controllo, essere bersagliate di messaggi e chiamate da un ex. Non è normale ricevere avance sessuali senza aver dato il consenso o subire pressioni su scelte e desideri personali. Fra le altre attiviste sui social troviamo Carlotta Vignoli. Di Firenze, si batte anche lei contro la violenza sulle donne. Su Instagram, dove è seguita da 388mila follower, si presenta così: “Io non volevo rompere l’internet, io volevo rompere il cazzo”. Dal 2017 cerca di avvicinare gli studenti al tema femminista parlando di diritti delle donne e pubblicando libri: “Maledetta sfortuna”, “Poverine” e “Memoria delle mie allegre puttane”.
Poi c’è Giulia Blasi, classe 1972. È una scrittrice, giornalista e attivista, oltre che una delle influencer femministe più seguite. Vive a Roma. Con 44mila follower all’attivo, affronta il tema della parità di genere e dell'inclusione. Autrice di “Manuale per ragazze rivoluzionarie”, “Rivoluzione Z” e “Brutta”, nei suoi post affronta tematiche di attualità a cui spesso non si dà il giusto risalto. Scrive: “Per essere donne è un pessimo momento, mentre per essere femministe è un ottimo momento. Le due cose sono come le convergenze parallele. Il femminismo diventa più vivace, più feroce, più attivo nel momento in cui le cose vanno male e, in questo momento, le cose vanno oggettivamente male”. Nel 2017 Giulia Blasi ha creato la campagna #quellavoltache con lo scopo di raccogliere testimonianze di abusi sessuali e molestie. Da marzo in tutta Italia andrà in tour lo spettacolo tratto dal suo libro, “Brutta”, interpretato da Cristiana Vaccaro per la regia di Francesco Zecca. “Una riflessione ironica ed estremamente attuale sul femminile e sul rapporto con il proprio corpo, che attraversa un universo caleidoscopico fatto di strade polverose anni ‘70, di cartoni animati anni ‘80, di donne-frutta e facce da stronza, di primi amori (e prime delusioni) a ritmo di successi sanremesi anni ’90, per arrivare fino ai giorni nostri”.
Altra attivista, con 91mila follower su Instagram, è Irene Facheris. Nata a Milano nel 1989, si definisce femminista intersezionale. Laureata in Psicologia dei processi sociali, decisionali e dei comportamenti economici, lavora come formatrice in ambito relazionale. Ha un canale YouTube dal 2010 dove ha dato vita alla video rubrica “Parità in Pillole”, è presidente dell'associazione no profit Bossy con cui fa divulgazione: va nelle scuole e nelle aziende a tenere incontri di sensibilizzazione sulla ‘diversity’. Ha scritto "Creiamo cultura insieme" ed è podcaster di audible con "Coming out: storie che vogliono uscire" ed "Equalitalk". Durante il lockdown ha iniziato le live con ospiti "Palinsesto Femminista" e “Lenti femministe: uno sguardo di genere sul mondo”. Nemmeno a farlo apposta, la ricerca ci riporta alla app di Bumble. È Giorgia Soleri a parlarne su Instagram, 743mila follower. L’attivista, che si definisce “Femminista guastafeste: credo nel potere della condivisione e una volta ho detto ‘vulva’ in Parlamento”, da fine novembre ha pubblicato tre post in cui parla in video della app di incontri Bumble. La sua vuole essere una conversazione sull’essere sé stesse durante gli appuntamenti online, su come rompere il ghiaccio e condividere esperienze. Chiacchiera con due ospiti, in abbigliamento molto casalingo (un pigiama giallo e ciabattone intonate), dell’importanza di fare la prima mossa, della sicurezza che fornisce la app sui profili fake, del filtro imposto alle foto. Può scattare la scintilla online? “Perché no? Sulla app di incontri si possono conoscere persone di altri ambienti e magari, giorno dopo giorno, può scattare la scintilla. Ma è molto rassicurante essere noi donne a cominciare”. Soleri ha il merito di aver sensibilizzato le donne e le istituzioni su malattie tipicamente femminili. Ha raccontato anche in tv la sua vita segnata dalla dolorosa endometriosi, spesso difficile da diagnosticare. Ha acceso i riflettori sulla considerazione delle patologie femminili e dei disagi legati al ciclo. Non è da poco. Noi boomer, all’epoca, nemmeno ci avevamo pensato. Ora passiamo all’ultimo capitolo, quello delle attiviste su OnlyFans, la piattaforma con contenuti sensuali a pagamento. In prima linea c’è Maria Sofia Federico, 225mila follower su Instagram. Si dichiara femminista e dice: “Fare la modella su OF non è oggettivizzazione del corpo”. Si chiede: “Quante volte su social come Tik Tok e Instagram le donne che mostrano ‘più del dovuto’ del proprio corpo sono bersaglio di commenti dove vengono giudicate esibizioniste, insicure, puttane, meritevoli delle molestie che ricevono giornalmente, ma non di rispetto?”. Lancia la sua provocazione: “Nessuno ha mai riflettuto sul fatto che più che ‘oggetti’ di qualcun altro noi siamo i soggetti di noi stesse. Il corpo e la sessualità possono coincidere ma rimangono due cose distinte che non vanno confuse. È quindi lecito trovare attraente una foto di una persona ma non lo è sfogare le nostre fantasie sulla diretta interessata in quanto lei non l’ha pubblicata per noi o per sentirsi dire quelle cose ma esclusivamente per sé stessa”.
Secondo Maria Sofia Federico il corpo, vestito o nella sua nudità, è pura espressione del soggetto: “Esattamente come quello di un artista che sente il bisogno di condividere con gli altri le proprie opere”. L’invito a tutti: “Dobbiamo smettere di giudicare secondo principi bigotti, falsi e limitanti, dobbiamo smettere di avere paura e invece iniziare a fare quello che vogliamo per determinarci”. Specifica, usando il tu generico: “Il mio corpo non è stato ideato per i tuoi piaceri più umilianti e depersonalizzanti, non è il trono della tua imposizione deviata, frustrata e violenta né tanto meno un invito ad averti nelle mie brame una volta pubblicata un’immagine online. No, le mie foto non ti stanno provocando. Non voglio meritarmi la tua ripugnante masturbazione”. Dopo aver letto questo, torno con il pensiero all’immagine che mi diede la moderatrice al lancio di Bumble: la ragazza che legge Socrate nuda su OnlyFans e offre i suoi contenuti a pagamento alla platea in gran parte maschile. Penso ai diari di Anaïs Nin, ai suoi racconti erotici e alla sua vita libera ante litteram. Cosa vuol dire essere femministe oggi? Aderire a un messaggio di parità veicolato da un brand con percentuali sulla vendita dei prodotti? Lanciare imprenditrici “di successo” accogliendole così (cit. da YouTube della coach Veronica Benini): “Ragazze, vi siete sincronizzate sul mestruo?”. Spartirsi ed esercitare il “potere” in modalità e obiettivi esattamente uguali a quelli da sempre esercitati dagli uomini? Il confine fra marketing e lotta reale nel flusso della rete che tutto uniforma si perde. Non basta dire sui social ‘io sono femminista’ per cambiare lo status quo. C’è ancora tanta strada da fare per ottenere parità e indipendenza, soprattutto in termini di lotta per i servizi e le tutele sul lavoro, sempre più precario e penalizzante per le donne che ancora gestiscono gli aspetti di cura dei figli e degli anziani. Bisogna agire concretamente nella realtà con azioni collettive e individuali: protestare, chiedere, rischiare. Il femminismo che conosco non è un brand.