Quando ho visto per la prima volta Sex and the city, lo show cult Hbo tratto dal romanzo della Bushnell, andavo in terza liceo, mi riducevo la sera tardi a studiare per la versione di latino, e quei venticinque minuti trasmessi in seconda serata da Telemontecarlo (oggi La7) mi sembrarono da subito una finestra su un mondo femminile adulto e sconosciuto, fatto di ambizione, vitalità e libertà. C’era la tv italiana dove la massima ambizione di una donna era ballare seminuda davanti a uomini in giacca e cravatta e poi c’era Sex and the city, ovvero New York, i locali notturni, gli speak easy, la sveglia che non suonava mai la mattina, Carrie che viveva del suo lavoro di scrittrice e andava a pranzo con gli editori e a cena con le star. E un sacco di vestiti, sempre nuovi, da cambiare velocemente ma mai così velocemente come gli uomini. Carrie aveva più del doppio dei miei anni, ma questo non mi impediva di identificarmi in lei e in quella ricerca di affermazione, mescolata ad amore e divertimento, che qualcuno più tardi avrebbe ribattezzato, banalizzandolo, “sex, success and shoes”.
Sex and the city, novantaquattro episodi in onda dal 1998 al 2004, non ha segnato solo il passaggio al nuovo millennio, ma ha rivoluzionato lo sguardo delle donne, da dentro e da fuori, la tv. E a vent’anni dalla messa in onda del suo ultimo episodio (negli Usa era il 22 febbraio 2004!) la conferma viene dalla sala degli Arcimboldi, gremita di donne di ogni età. Lei, Candace o meglio Candi (with an I), gioca a ripercorrere la sua vita (in piena linea con il biographical turn che domina la narrativa e lo storytelling contemporanei) in una sorta di autobiografismo di ritorno, di gioco di specchi tra vero e falso, tra la sua vita reale e le avventure del suo alter ego Carrie. Alla platea viene chiesto di indovinare se ciò che ha visto nella serie sia ‘real or not real?’: così scopriamo che Candace ha davvero frequentato un senatore, ma non ha dovuto urinare su di lui. Che ha realmente incontrato Matthew McConaughey a Los Angeles, anche se non ci ha fatto sesso. Che Mr. Big esiste davvero e l'ha piantata per un’amante di Aspen mentre si trovavano in vacanza negli Hamptons.
Ma a prescindere dallo spettacolo, la domanda fondamentale è quella che si pone la Bushnell nel corso dello show: “Is there still sex in the city?”. Ovvero: “C’è ancora sesso in città?”
Cosa ne è di quelle quattro amiche (Carrie, Miranda, Samantha e Charlotte) che vivevano i loro mid-30 nella città più desiderabile al mondo e parlavano di sesso e di relazioni in modo libero e “unapologetico”, proprio come Candace sul palco? Negli ultimi anni il maccartismo neo-femminista non ha risparmiato nemmeno Sex and the city e le sue eroine: troppo bianche, troppo etero, troppo consumiste, talmente ingenue da soggiacere a dinamiche stereotipate di patriarcato. Interiorizzate al punto da non riconoscerle e da farsene inconsapevoli divulgatrici. Invischiate addirittura in relazioni “tossiche” con uomini manipolatori: Mr. Big trasformato in metonimia, il fallo per il tutto, al centro persino del nome (anche se la Bushnell, nel suo show, ci tiene a ribadire di aver scelto proprio quel nome per prendere per il culo l’ego fragile degli uomini, “nessun uomo si sarebbe lamentato di sentirsi chiamare così”).
Peccato che Sex and the city abbia rappresentato l’esatto contrario: un grido di femminilità libertaria e libertina, completamente antiretorica, e dunque irriducibile alla dimensione della strumentalizzazione politica – l’unico vero obiettivo del femminismo moderno.
Si pensi alla liberalizzazione del linguaggio: prima di Sex and the city non si era mai vista, in tv, una donna parlare senza giri di parole di sesso, e che questo sesso fosse da lei inteso come finalizzato esclusivamente al raggiungimento del proprio piacere e nient’altro (le ragazze di oggi faranno fatica a crederlo, ma all’epoca il fatto che una donna parlasse del raggiungimento del proprio orgasmo come unico obiettivo del rapporto era davvero un fatto rivoluzionario. Basti pensare che in Italia ogni puntata veniva introdotto da un orribile talk show, intitolato “Sesso: parlano le donne” che aveva proprio il compito di smussare e livellare la potenza del messaggio veicolato dalla serie tv).
Ed è pur vero che l’ossessione per le scarpe e i vestiti alla moda era consumismo allo stato puro, ma era, almeno, un consumismo innocuo, basato sulla merce: tutt’altra cosa rispetto a quello di oggi, dove la merce è scomparsa e ad essere consumati sono i valori (la beneficienza come strategia di marketing, vero Chiara Ferragni?) o le relazioni familiari più intime (i figli usati come props nelle stories su Instagram, vero Chiara?).
Non erano le Manolo Blahnik a definire Carrie: era la sua capacità di indossarle e di stare in piedi in un mondo maschile, fatto di scale ripide. In altri termini: spacchiamo il soffitto di cristallo ma facciamolo di slancio, con ai piedi un tacco 14 a stiletto, orgogliose della nostra differenza e non utilizzandola come una scusa per fare le vittime, blaterando nel processo idiozie come “pinkwashing”.
Per questo è stato con enorme tristezza che, mentre sentivo la Bushnell parlare sul palco, ripensavo all’inizio di And just like that, il pessimo, pessimo sequel di Sex and the City, dove una Miranda coi capelli bianchi, con una tirata puritana in pieno stile “woke”, rinnega l’universo ideologico della serie, spiegandoci quanto oggi sia ridicolo tingersi, depilarsi, fare shopping e persino diventare madri, se tale scelta implica sacrificio, e quanto invece sia importante battersi sui social per sostenere “le giuste cause” e utilizzare i pronomi inclusivi.
La vera libertà, la vera parità di genere ci sarà quando le donne entreranno in un cda senza avere timore di appoggiare sul tavolo un meraviglioso paio di stiletti di D&G: proprio come quelli ai piedi della Bushnell il primo giorno sul set della serie a New York City.