Una notizia fa il giro del mondo: Israele recupera i corpi dei propri soldati morti, ne estrae lo sperma, li usa per il futuro. Credo sia evidente che c’è qualcosa di disturbante, quasi mitologico, nel gesto di recuperare lo sperma dei soldati morti per fecondare artificialmente donne che ne reclamano la discendenza. Un atto che si colloca nella intersezione tra biopolitica, tecnica e un’idea arcaica di sopravvivenza genetica che in Israele assume una forma particolarmente paradossale. Specie adesso, specie dopo quello che è successo in Palestina. Se Platone, nella Repubblica, proponeva un sistema di selezione eugenetica per garantire la nascita di una classe dirigente perfetta, basata sulla fusione tra il principio aristocratico della selezione naturale e il potere organizzativo dello Stato, oggi vediamo un ritorno distorto di quella idea nel contesto israeliano. La differenza? Qui la selezione non avviene a monte, nella regolazione delle nascite, ma a valle, nella decisione di prolungare artificialmente l’eredità biologica di uomini scelti non per la loro predisposizione intellettuale o morale ma per il loro sacrificio in battaglia (l’epica dell’eroe della razza). Il problema non è solo filosofico o bioetico, ma tocca un nodo storico che dovrebbe risultare insostenibile. La questione ebraica, nel Novecento, è stata segnata da un genocidio costruito attorno all’idea della razza, un concetto aberrante che ha ridotto l’esistenza di milioni di persone a un dato biologico da sterminare. Che proprio in Israele, il paese nato per dare rifugio a quel popolo perseguitato, si sviluppi una sorta di culto della discendenza genetica, legato al sangue di chi muore in guerra, è¨ qualcosa che sconcerta. E questo è preliminare al presunto genocidio operato a Gaza: è questo il nodo da comprendere.
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Lo Stato israeliano, nel suo tentativo di garantire continuità alla propria popolazione, ha fatto della biologia una questione politica. Il recupero dello sperma dei soldati morti non è solo un atto di amore privato come spesso viene venduto dai media, di madri e compagne che vogliono dare un figlio a chi non ha avuto il tempo di generarlo. Siamo davanti anche a una pratica che si inserisce in una narrazione nazionale in cui la riproduzione è un imperativo, una strategia demografica che serve a garantire la sopravvivenza di Israele in un contesto geopolitico percepito come ostile. In un certo senso, un rovesciamento della paura dell’annientamento: se il popolo ebraico è stato minacciato dall’idea che il suo sangue dovesse essere eliminato, ora è proprio quel sangue che diventa un bene da preservare a ogni costo. Ma che significa questo per il concetto stesso di identità? La selezione platonica mirava a creare una classe di filosofi-RE, individui in cui il sapere e la virilità si trasmettevano in una combinazione tra educazione e genetica. Qui, invece, la selezione avviene per ragioni puramente militari: non i più saggi, non i più giusti, ma i più puri e coraggiosi di etnia, i più fedeli allo Stato. Selezionare chi merita di continuare a esistere in base al sacrificio bellico è¨ una forma di eugenetica rovesciata, in cui la morte diventa il criterio di valore per la vita futura. Eppure, questa pratica non viene percepita come una aberrazione, ma come un atto di pietà e di giustizia nei confronti di chi è caduto.
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La continuità biologica viene trasformata in un atto politico, un’estensione della guerra con altri mezzi. Israele, che dovrebbe essere il paese della memoria, diventa così il paese della riproduzione a ogni costo, del dna come ultimo baluardo dell’esistenza. Un paese in cui la sopravvivenza non è più solo una questione di cultura o tradizione, ma di filamenti di acido nucleico da proteggere. Ma una nazione può davvero fondarsi sulla genetica? Qui la teologia si fonde con la politica definitivamente. Può un popolo che ha subito le conseguenze peggiori dell’ossessione per la purezza del sangue accettare di trasformare la biologia in un elemento di resistenza politica? Platone, se vivesse oggi, potrebbe guardare a questo fenomeno come a un nuovo esperimento sulla città perfetta, ma vedrebbe anche l’enorme contraddizione insita in esso: la pretesa di controllare la vita, di decidere chi merita di continuare a esistere e chi no, è sempre un gioco pericoloso che distrugge la vecchia memoria e trasforma in mostri. Israele, nella sua tensione tra passato e futuro, tra sopravvivenza e ideologia, rischia di cadere nella stessa trappola che la storia gli ha insegnato a temere. Se il sangue diventa il fondamento ultimo dell’identità, se la riproduzione artificiale diventa un’estensione del campo di battaglia, allora la memoria cede il passo alla biologia. E un popolo che ha lottato per esistere come cultura, come spirito, come storia, rischia di ridursi a una semplice questione di dna, razza, e violenza di sangue.
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