Un animatore puro, il Dibba. Non solo perché banalmente gli capitò di fare anche l’animatore turistico, quand’era più giovane, ma per una ragione più profonda, che in parte spiega il seguito personale di cui gode: è tutto anima. Anima in senso psicanalitico: vibrazione, convinzione assoluta, cuore oltre l’ostacolo. C’è chi dice: donchisciottesco, troppo cuore. Ieri, al festival Libropolis in quel di Pietrasanta (Lucca), Alessandro Di Battista ha fatto il mattatore: in una riedizione del format “uno contro tutti”, che ebbe i suoi fasti televisivi con Carmelo Bene ed altri nel vecchio Maurizio Costanzo Show, ha risposto a domande senza filtro dell’uditorio ingranando, com’è suo uso, la quarta da comizio. Un fiume in piena in groppa ai suoi cavalli di battaglia, l’Agenda Dibba: dalla falsa alternativa destra-sinistra (“è come dirsi guelfo o ghibellino, oggi lo scontro è alto contro basso”) all’anti-atlantismo (“meno Nato significa più Europa, che oggi è una succursale americana, e per questo la Meloni farà quel faceva Draghi”), dalla guerra in Ucraina (“la retorica dell’Occidente in lotta per la libertà è ipocrisia, a dimostrarlo è l’apartheid in Palestina, e le sanzioni non hanno mai buttato giù nessun regime, basti pensare a Cuba”) al disprezzo per la stampa mainstream (“con il Corriere e la Repubblica ci incarto i totani, quando leggete guardate sempre chi sono i proprietari dei giornali”), dalla superiorità della democrazia diretta, tipo Svizzera, su quella rappresentativa (definita “un imbroglio, una finzione” che “si sta suicidando, perché il cittadino sente che il suo voto non incide”) alla centralità dell’etica, della coerenza, soprattutto della propria (“il politico deve non solo essere ma anche apparire onesto, tutti mi riconoscono che tutto quel che dico è quel che penso, non posso andare contro la mia natura”).
È stato uno dei numerosi incontri con il pubblico per promuovere il suo ultimo libro, “Ostinati e contrari” (Paper First), una raccolta di interviste a “voci contro il sistema”, come recita il sottotitolo. Il libro, accidentalmente, non c’era. Ma poco importa: c’era, oltre a una platea di curiosi, il suo pubblico, quello che attende con impazienza il ritorno alla Grande Politica, da leader in pectore di un nuovo, o rinnovato, Movimento 5 Stelle. Ed è infatti sul suo futuro e sulla creatura di Grillo e Casaleggio che il Dibba ha detto le cose più interessanti. E le ha dette sia durante il confronto in sala sia dopo, ovvero quando, all’aperto, seduto e spritz in mano, si è nuovamente concesso a un capannello di simpatizzanti, fra cui un certo numero di sciure evidentemente non insensibili al fascino oratorio del Nostro. Ebbene: aveva già annunciato la nascita prossima ventura di una “associazione culturale”, prodromica, chissà, a un M5S 2.0. Ora confida, dando una notizia: “Sì, potrà essere un movimento politico, ma non un nuovo Movimento 5 Stelle. Stiamo facendo i preventivi per le spese, stiamo pensando all’organizzazione, magari con referenti territoriali che cambiano ogni anno. Ma l’idea non è di creare qualcosa avendo in mente la prossima elezione. Me l’ha insegnato Gianroberto (Casaleggio, ndr): prima bisogna costruire le fondamenta, dimostrare di essere seri in credibilità, strutturarci, non si può fare in quattro e quattr’otto”.
Prende tempo, cioè, ed è legittimo pensare che stia aspettando di vedere scoprire le mosse del suo ex movimento per decidere le proprie. “Non ho nessun rapporto con il M5S. A Giuseppe Conte ho detto: vai avanti così. Se non si alleano di nuovo con il Pd, nell’arco di due anni lo svuotano”. Pathos della distanza: da una parte, rispetto per la linea più recente che ha contribuito a far cadere il “governo dell’assembramento” di Mario Draghi (a proposito: lui se n’è andato dal M5S quando questo “non aveva più la maggioranza nella maggioranza e non esprimeva più il capo del governo”, cioè proprio con Draghi, e non prima, quando pure dissentiva dall’abbraccio con il Pd nel Conte 2, una virata che il Salvini del Papete “non immaginava, preso com’era dall’ubriacatura di potere e dal 40% nei sondaggi di allora”); dall’altra, critiche e lazzi a chi ha tradito l’anima originaria (e qui Di Battista, pur romanescamente battutaro, smentisce che il suo “vai a prenderti una laurea” rivolto al “trasformista” Luigi Di Maio fosse una battuta: era un vero “suggerimento”).
Ricorre più volte il nome di Casaleggio Sr, nei discorsi dibattistiani. Come di un figlio orfano di padre spirituale, del quale programmaticamente vorrebbe trasmettere due punti fondamentali: “il referendum propositivo senza quorum e l’obbligo di discutere le proposte di legge popolari” (ma l’idea più eterodossa, e occorre dire pure antimodernista, del Casaleggio ideologo era l’abolizione del vincolo di mandato, roba da far venire l’apoplessia a Sabino Cassese). Come dire: se fosse stato vivo lui, forse non saremmo arrivati a questo punto. Non l’ha detto, questo, Di Battista, lo abbiamo pensato noi nel trascrivere il retroscena che ha svelato sulla formazione del governo Draghi. L’“apostolo della finanza”, il simbolo ambulante di tutti quei sovrapoteri da sempre denunciati da Grillo, chiama al telefono Beppe e gli sciorina un elenco di argomenti su cui sa di toccare le corde del fondatore del M5S: transizione ecologica, reddito di cittadinanza, eccetera. In sostanza, cerca di convincerlo sull’intenzione di mantenere e sviluppare i temi portanti del grillismo. E lo convince. “L’ha convinto!”, ripete Dibba sgranando gli occhi, "gli ho telefonato e mi fa: belìn, Draghi è un grillino!". Al che gli facciamo notare che, tecnicamente, più che convinto, se l’è intortato.
Ma anche questo Di Battista non l’ha detto. Lo diciamo noi. E, sommessamente, per concludere, osserviamo che la sua ribellione ai canoni del politico carrierista, fedele alla promessa di non fare della politica una professione a vita (“mi pagano per scrivere e per viaggiare”, sottolinea con soddisfazione nel ruolo di reporter per il Fatto), è alimentata da un furor che entro gli rugge con un’ambivalenza pericolosa. Pericolosa per i suoi progetti, intendiamo. Quando rivendica il credito, inattaccabile e finora intaccato, guadagnato rinunciando alla poltrona di ministro nel Conte 2 (“pensavo a mia mamma, tutte le madri vorrebbero il figlio ministro, ma il Pd non mi voleva e se avessi accettato, sarebbe diventata ministro anche la Boschi”), sul piatto, da offrire ai cittadini, mette anzitutto il valore assoluto del comportamento cristallino. Perfetto. Ma poi lo pretende anche dai cittadini, che “non devono essere solo elettori”, spettatori passivi, ma devono controllare l’operato degli eletti. Motivo per il quale, ad esempio, il M5S ha avuto la deriva che ha avuto, secondo Dibba a causa degli iscritti non abbastanza “responsabili”. In realtà, è proprio perché il cittadino medio è abituato a fare il “tifoso” che una forza politica deve organizzarsi anticipatamente per formare i propri militanti e, ancor di più, la propria classe dirigente. Formazione, si badi, alla cultura politica, non a sapere la capitale del Burkina Faso.
Insomma dal momento che nessuno è perfetto, degli errori li avrà commessi, Grillo a parte, anche il buon Casaleggio, quando ha concepito il modello e ha seguito l’evoluzione del M5S. E infatti i nodi sono venuti inesorabilmente al pettine. A partire dall’assenza di selezione, che non vuol dire escludere i meno attrezzati culturalmente o economicamente, ma l’esatto contrario: dar loro gli strumenti, prepararli, scolarizzarli al conflitto. Idem quando sostiene che per spingere alla partecipazione - alla libertà nel senso di Gaber - è necessario che la politica diventi “un’attività disinteressata”. A parte il fatto che è un bel vaste programme, un po’ alla Robespierre, sognare un’avanguardia di puri e incorruttibili (e ognun sa che fine fece Robespierre) quando ne basterebbe una di intelligenti e determinati, la politica è e resterà contesa di interessi contrapposti. Anche personali, è umano. L’interesse c’è sempre, per quanto ci si possa sforzare di moralizzarlo. Si tratta di addestrarlo, contenerlo, incanalarlo e regolarlo a priori. Lo insegnava un certo Niccolò Machiavelli, ingiustamente passato alla storia come maestro del Male: è imprescindibile l'esser capaci di combattere nel campo di battaglia in cui ci si trova, ricorrendo alle armi, non esattamente angeliche, che servono per sporcarsi le mani senza per questo affondarle nella merda. Non con cinismo, quindi, chè altrimenti si perderebbe per strada il fine ultimo: gli ideali. Con realismo, tuttavia, sì. Tradotto: imparare la lezione di ciò che è andato storto in quella macroscopica occasione, sostanzialmente mancata, che è stato ad oggi il M5S. L’anima è un raro pregio, in un mondo di cinici. Ma proprio per non darla in pasto ai porci, ci vuole anche la testa. Che a Dibba non manca. Quel che manca, al tribuno della plebe dalle enormi potenzialità di consenso, è un Casaleggio. Possibilmente aggiornato, però.