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Controtempo

Divieto di fumo a Milano? Ma se anche Dio è un fumatore di sigari. E l’Italia cialtrona che mette al bando per legge le sigarette è...

21 gennaio 2025

Il divieto di fumo nelle aree pubbliche e all’aperto a Milano è entrato in vigore quest’anno, ma davvero è un modo per prendersi cura della salute pubblica e dell’ambiente? O è l’ennesima legge usata come arma di distrazione di massa? L’attualità italiana vista dal poeta e regista Giorgiomaria Cornelio con la sua rubrica, Controtempo, un modo di entrare in collisione non solo con il sentire comune, ma anche con MOW

di Giorgiomaria Cornelio Giorgiomaria Cornelio

Dio è un fumatore di sigari, cantava Serge Gainsbourg. Eppure, dal primo gennaio a Milano non si può più fumare all’aperto. Il divieto «è esteso a tutte le aree pubbliche o ad uso pubblico all'aperto, incluse vie e strade, ad eccezione quindi delle aree isolate in cui è possibile rispettare la distanza di 10 metri da altre persone». Tutto ciò sembrerebbe un progresso inevitabile e gioioso, un farla finita una volta per tutte con una tossicità mortifera, che infesta le nostre vite da troppo tempo. Si tratta invece di una sciagura estetica che si tramuta in ammalamento etico, perché pretende di risolvere la tossicità occultandola con un divieto, di semplificarla invece che problematizzarla - che farne una forma di riflessione civile su che cosa significhi oggi stare al mondo nell'epoca dell'inquinamento come condizione permanente.

Serge Gainsbourg
Serge Gainsbourg: "Dio è un fumatore di avana"

Partiamo da un'evidenza fin troppo trascurata, ovvero dalle parole di un saggio di Mary Maggic intitolato Estrogeni Open Source: «Il nostro è un paesaggio alieno, che sta mutando i nostri corpi. Per via delle industrie petrolchimiche, agricole e farmaceutiche, il nostro è divenuto un paesaggio tossico, colonizzato dagli ormoni. Questi interferenti endocrini si sprigionano dalle pillole contraccettive, dai pesticidi, dai plastificanti, dai prodotti di elettronica e per la cura personale. Sono i marcatori dell'Antropocene, dove ciò che è naturale non può più essere separato da ciò che è artificiale. Gli oggetti di cui ci circondiamo, il cibo che mangiamo e l'aria che respiriamo [...], queste xeno-molecole sono in grado di trasfondere un cambiamento a livello morfologico». Siamo costantemente immersi in un'atmosfera di inquinamento: siamo già nel fumo, nella nebbia costante. Siamo già mischiati con ciò che ci avvelena, ci trasforma, ci muta - anche questo è stare al mondo. Il fumo delle sigarette, dei sigari, delle pipe non fa che agitare questa occulta evidenza: è un marcatore atmosferico. E insieme, è l'invito a concertarlo - la lezione a trasformare l'impuro in una forma di riflessione. Non soltanto a dieci metri - ma sul confine della pelle e dello sguardo. Per farlo tremare.

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Cialtrona e trasandata è quindi l'Italia che "mette al bando" le sigarette ignorando beatamente il fumo di immagini che ci compone, e le genealogie che ci precedono. Si fumava, si è fumato, prima di conoscere le implicazioni sulla salute (o quanto meno su una forma specifica di salute: quella del sapere medico). La lezione del fumo è pericolosamente simile a quella dell’amianto: una fragile eternità che ci sovrasta, sorpassandoci, attaccando il futuro dal passato. L’amianto si sgretola; possiamo bonificarlo, ma una volta respirato si muove ad altre velocità temporali rispetto al ritmo quotidiano: le sue conseguenze sulla nostra salute si manifestano dai 15 ai 50 anni dopo. Non siamo in controllo. Non lo saremo più - il fumo marca anche questo; un congedo dalla supremazia umana sul mondo, con tutto il dolore che ciò comporta.

Quando, vent'anni fa, si è introdotto in Italia il divieto del fumo al chiuso, tale divieto implicava una necessaria questione del consenso. Fumare non poteva più significare colonizzare lo spazio chiuso condiviso con altri; estendere oggi il divieto alle aree aperte diventa però una scelta chiaramente ideologica: una battaglia che non ha più che a che fare con il consenso, ma con la negazione dell’atmosfera in cui siamo immersi. È un trucco cosmetico: un’altra forma di nebbia, che serve a coprire il veleno, invece che darci strumenti medicinali per conviverci. È l'ulteriore conferma di un paradigma molto più inquinante del fumo: quello dell'uomo che pretende sempre di avere la supremazia su ogni cosa, incluso la propria catastrofe. E in tutto questo, ammonta a circa 15 miliardi il valore delle accise versate alle casse dello Stato per i prodotti da fumo ed inalazione.

Il traffico di Corso Buenos Aires a Milano
Il traffico di Corso Buenos Aires a Milano

Piuttosto che a divieti, sarebbe meglio pensare a un'educazione al fumo che ci insegni a dismettere la nostalgia per la supremazia, muovendoci verso un’umanità che sappia rispettare lo spazio che condivide con tutte le altre creature. Ma il fumo ci mette in guardia, ci dice che forse questo "sogno" non sarà possibile: che un'umanità pura e igienica non costituisce un futuro certo. Siamo fatti della nostra tossicità: bene rivoltarci contro questa "natura"; male coprirla con trucchi frettolosi, fare finta che vada tutto bene - che ogni problema si risolva con una passata di spugna. Meglio ancora pensare che il fumo possa costituire, come tutto l'inquinamento, una grande sfida di reinvenzione biologica: che l'animale umano, alla maniera di certi funghi, possa arrivare a digerire e metabolizzare il poliuretano e altre sostanze per il momento considerate "nocive". Insomma: nessuna natura è un destino certo.

Il fumo, come l'inquinamento, non chiede divieti, ma "metabolizzazioni immaginative". Corpi nuovi, corpi alieni, corpi a venire.

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