Anna Maria Bernardini de Pace: “Denunciare è un dovere”
Il nostro pezzo – questo pezzo – nasce da un’ingiustizia grave. Poteva nascere da altri episodi simili, ma inizia con la vicenda di Lucia Regna di recente raccontata da Elisa Sola su La Stampa. Partiamo da lei per chiederci se per una donna, nel 2025, sia ancora importante, utile, necessario denunciare una violenza. Lucia Regna, nel luglio 2022, fu massacrata dal suo ex. L’uomo, condannato a un anno e mezzo di carcere, non ha scontato alcuna pena. A Lucia è stato ricostruito il volto con 21 placche di titanio, ma il nervo oculare è rimasto leso in modo permanente. Ha dichiarato, scorata: “Perché ci dicono di denunciare se poi quello che viene dopo, da parte dello Stato, è uno schiaffo morale che fa più male delle botte? A cosa serve il Codice Rosso? A niente. Io mi sono pentita di averlo denunciato. Adesso può continuare a fare del male. A me. O alla prossima”? Ecco, appunto. Denunciare serve? La Legge Codice Rosso del 2019 riesce davvero a tutelare le vittime? Ne abbiamo parlato con uomini e donne di legge. Esperti, competenti, sensibili.
La nostra prima interlocutrice è stata Anna Maria Bernardini de Pace, avvocato del Foro di Milano, saggista, dal 2024 anche giudice di “Forum”, il programma di Barbara Palombelli.
Denunciare è un dovere – continua Bernardini de Pace – perché se c’è un reato e non si denuncia sempre, questo tipo di reati non finirà mai. Poi siamo in Italia, ahimé, e tutto potrebbe andare meglio se ci fossero giudici più veloci, più capaci e meno maschilisti. Di base ritengo che tutti i giudici dovrebbero essere molto più severi, questo sarebbe un modo per abbassare non solo il numero dei femminicidi ma il numero delle donne che soffrono. Non credo in certe indulgenze come la riduzione di un terzo della pena e cose simili. Anzi, questo tipo di reati andrebbero perseguiti con estrema durezza”.“Riguardo al caso di Lucia Regna, bisognerebbe capire come si è sviluppato il processo. Più in generale, però, mi sento di dire chiaramente che denunciare non è un atto di coraggio. È un dovere“.
La nostra legge prevede molta flessibilità rispetto ad avvenimenti che, visti con l’occhio dell’uomo della strada, non lascerebbero spazio a dubbi interpretativi?
È il principio del contraddittorio processuale che porta a quella che lei chiama “flessibilità”.
Crede che ci sia ancora molto sommerso in termini di violenze non denunciate?
Sono certissima che ci sia, lo vedo. So perfettamente come funziona, come ragionano le donne che non denunciano. Pensano, non denunciando, di tutelare i figli, che di colpo, altrimenti, si ritroverebbero con un padre delinquente. Ma sbagliano, perché così si crea una catena. La violenza non denunciata crea la catena psicogenetica della violenza, per cui un figlio che assiste alle violenze perpetrate dal padre sarà sicuramente un padre e un marito violento. Una figlia che assiste alla violenza patita dalla madre penserà invece che la violenza vada subita senza replicare, senza reagire.
A volte ho qualche dubbio sulla rete femminile delle relazioni. Al centro c’è una donna che subisce violenze, ma attorno a lei ci sono donne, più giudicanti che altro, che faticano a sostenere la vittima.
Concordo, spesso manca la cosiddetta “sorellanza”. Manca solidarietà. E tutto in nome di un principio quantomai bieco: ognuno si deve fare gli affari propri.

Fabio Anselmo: "Purtroppo mi faccio subito una domanda..."
Pacato e riflessivo, Fabio Anselmo (avvocato di battaglie epocali: Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi) ci spiazza con una considerazione amara: “Quando vedo una donna pestata da un ex coniuge e una giustizia che non è stata fatta, purtroppo mi chiedo: che mestiere fa/faceva lui?”.
“Certo che vale la pena denunciare – afferma Anselmo –, ma l’eventuale posizione di potere ricoperta da chi commette il reato è innegabile che abbia un certo peso. Denunciare sempre, però non sempre la denuncia viene premiata e quando assisto una donna in difficoltà mi chiedo subito che lavoro faccia lui”. “Non critico – prosegue – la Legge Codice Rosso, anzi. Però la mia esperienza mi dice che l’identità dell’autore del crimine è importante. Poi l’esito di un processo è determinato da tanti fattori, dalla competenza di tutti gli attori coinvolti, però, sullo sfondo, c’è questo concetto”.

Carlo Taormina, “le denunce infondate, però, inquinano tutto”
“La denuncia è sempre utile”, ci ha detto Carlo Taormina, avvocato, politico e giurista che nei decenni è stato parte integrante di tanti processi celebri, dal delitto di Cogne a quello che ha visto imputato e poi condannato Massimo Giuseppe Bossetti per la morte di Yara Gambirasio. “Bisogna fornire agli organi investigativi qualcosa su cui riflettere attentamente. Il rischio è che queste denunce, però, cadano nel nulla".
Perché?
Innanzitutto perché le forze dell'ordine spesso assumono una posizione di partenza che definirei un po’ paternalistica. Tante volte accade che questo atteggiamento faccia sì che trascorra troppo tempo prima che si faccia qualcosa di rilevante e sostanziale. Il rischio è che dalle botte si arrivi all’omicidio senza che nessuno, prima, sia mai tempestivamente intervenuto. Ma i problemi non finiscono qui, ce ne sono senza dubbio altri”.
Quali?
Gli inquirenti, compresi i magistrati, talvolta partono con una prevenzione: chi ha denunciato ha necessariamente ragione. E questo è un problema molto serio, perché impedisce che da parte degli investigatori si sviluppi un’attività ad ampio raggio. Si deve tenere conto anche della possibilità che la denuncia non sia fondata. Tante volte abbiamo a che fare con denunce che scaturiscono da un impeto di rabbia, o con denunce “vendicative”, atte a strumentalizzare il meccanismo penale per ottenere vantaggi. Ci sono procedimenti civili (separazioni) che non riescono a imboccare la strada giusta e allora che si fa? Si utilizza lo strumento penale per risolvere il problema. Ma c’è un altro punto”.
Un problema ancora più grave?
Beh, si tratta di un punto molto delicato. Oggi la denuncia è diventata un affare economico. Il nostro territorio è disseminato di comitati, aggregazioni di avvocati, assistenti sociali, case famiglia… Figure e organizzazioni che acquisiscono l’affare e lo gestiscono. Tante volte svolgono un ruolo importante, ma altrettanto frequentemente perdono lucidità, senso dell’equilibrio. Il loro obiettivo è il risarcimento del danno e per ottenerlo non si fanno scrupoli nello strumentalizzare gli eventi. Così le vittime vengono “caricate”, spinte a muovere accuse sempre più gravi. Non stupiamoci se a volte, quindi, a fronte di una denuncia, non tutto fila come dovrebbe. Ci si può imbattere in atteggiamenti “inquinanti” che certamente non contribuiscono a far sì che vengano accertate le giuste responsabilità.
A una donna che subisce violenza quindi cosa diciamo?
Che deve denunciare e combattere giudizialmente. Se la ragione è dalla sua parte ci sono ottime probabilità che finisca tutto bene. La giustizia, però, non deve essere mai una vendetta. Anche chi ha sbagliato, e deve risarcire il danno, deve pagare il giusto nella misura adeguata.

