Nella notte tra il 9 e il 10 settembre la Polonia si è trovata improvvisamente proiettata dentro la guerra: diversi droni russi hanno oltrepassato il confine, colpendo zone vicine ai centri abitati e costringendo Varsavia a far scattare le sirene d’allarme. Le forze armate polacche li hanno neutralizzati, ma l’episodio si è intrecciato con un contesto già tesissimo: nei prossimi giorni Russia e Bielorussia condurranno le esercitazioni Zapad 2025, proprio a ridosso del fragile corridoio di Suwałki, quel lembo di terra che separa Kaliningrad dalla Bielorussia e che rappresenta il tallone d’Achille della NATO. Il governo polacco ha denunciato una “provocazione”, ma ha reagito con più prudenza che in altre occasioni: lo spettro di un incidente trasformato in casus belli resta però ben presente, soprattutto in una fase in cui la guerra in Ucraina, lungi dall’avviarsi a una conclusione, sembra destinata a incancrenirsi per anni. In questo scenario, in cui basta un drone per evocare il rischio di un conflitto mondiale, abbiamo chiesto a Domenico Quirico, inviato storico de La Stampa e testimone diretto di molte guerre del nostro tempo, di aiutarci a leggere il senso di questi eventi e la deriva di un mondo dove la forza ha preso definitivamente il posto della diplomazia.

Dopo lo sconfinamento dei droni russi in Polonia, qual è la sua lettura?
Non è la prima volta che accade, e in molti casi si tratta di incidenti o errori di traiettoria. Ma resta il fatto che la responsabilità è russa. I droni sono un’arma che andrebbe vietata universalmente: un ordigno infame, che permette di fare la guerra a distanza, senza assumersi rischi. Sono macchine di morte che colpiscono indiscriminatamente, moltiplicano le possibilità di conflitto e rendono la guerra “più facile”.
Lei parla di “arma infame”: perché il drone rappresenta un salto di qualità così pericoloso?
Perché è vile. Uccidi stando comodamente a mille chilometri, senza guardare negli occhi la vittima, senza distinguere tra un militare e un passante. La storia dei droni, dall’Afghanistan in poi, è una sequenza di errori e di ipocrite “perdite collaterali”. È un’invenzione diabolica che potrebbe persino scatenare la terza guerra mondiale: basta un drone che finisca per errore in un Paese Nato, e quello diventerebbe un casus belli.
Quanto è reale oggi il rischio di un conflitto generalizzato in Europa?
Altissimo. Dopo quattro anni di guerra in Ucraina, l’avanzata si misura in metri. Eppure tutti pensano di poter vincere: i russi, gli ucraini, i polacchi, i baltici. La Gran Bretagna soffia sul fuoco. E gli americani, che finora hanno fatto da “tutori”, non sono più così solidi né così disposti a contenere gli alleati. La possibilità di una guerra generale non è un’ipotesi lontana: è una realtà.

Se la Polonia decidesse di reagire senza consultare Washington, gli Stati Uniti avrebbero la forza di fermarla?
Non è detto. “Poter” controllare e “voler” controllare sono due cose diverse. Ci sono Paesi europei che vogliono la guerra con la Russia. Pensano che sia l’unico modo per risolvere la questione. Se Varsavia decidesse di agire per conto suo, non so quanto gli Stati Uniti sarebbero pronti a mettersi di traverso.
In parallelo, Israele ha bombardato Doha durante i negoziati con Hamas. Come legge questo episodio?
È un esempio di come il mondo sia cambiato. Fino a ieri i piccoli Stati si muovevano seguendo gli Stati Uniti. Oggi ognuno fa ciò che vuole. È il “liberi tutti”: comanda la forza. La diplomazia è un mestiere estinto. Russia e Israele colpiscono chi vogliono, anche amici degli Stati Uniti, e nessuno reagisce. Dal 24 febbraio 2022 è chiaro che conta solo la quantità di cannonate che riesci a sparare.
Le istituzioni internazionali, allora, non hanno più alcun ruolo?
Sono un ricordo ridicolo. L’Onu, l’Unione Europea, perfino la Nato stessa sono organismi logorati. Oggi due terzi del mondo detestano l’Occidente, e hanno ragioni profonde per farlo. Viviamo nel mondo dei lupi e degli sciacalli: alcuni mordono più forte, altri meno, ma tutti azzannano allo stesso modo.

E l’Italia? Quale posto occupa in questo scenario?
Nessuno. Contiamo zero. Lo dico con amarezza, ma anche con realismo. Non solo perché gli altri ci ignorano, ma perché noi stessi abbiamo rinunciato ad avere un ruolo. Siamo parte di un Occidente in declino, che ha perso autorevolezza, forza e perfino la capacità di immaginare alternative alla guerra.
Secondo lei quanto durerà la guerra in Ucraina?
Decenni. Non vedo alcun margine di soluzione, né politica né militare. Continueremo a vivere di incidenti, provocazioni, escalation. E basterà un errore, una decisione irresponsabile, un drone caduto nel posto sbagliato per precipitare nel baratro di una guerra mondiale.
C’è ancora uno spiraglio di speranza?
La speranza non è una categoria politica. Esiste per gli individui, per chi sopravvive. Ma sul piano delle nazioni, delle grandi potenze, non la vedo. L’unico antidoto sarebbe una rinascita della diplomazia, un ritorno al compromesso. Ma oggi il compromesso è una parola bandita.
